Siamo i soli depositari della nostra felicità
Sono Noemi Di Lillo, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta, iscritta all'Albo degli Psicologi e degli Psicoterapeuti del Lazio n 17119.
Lavoro presso lo "Studio di Psicoterapie e Supporto Psicologico" sito a Roma, in via Ludovico di Breme 11, zona Talenti - Monte Sacro.
Nella pratica clinica mi occupo di Psicoterapia per Adulti e Bambini, Consulenze e Sostegno Psicologico.
I principi guida che seguo nel mio lavoro sono la costruzione di un intervento centrato sulla persona, co-creatrice delle modalità di intervento e responsabile del proprio processo di cambiamento, il rispetto della libertà di ciascuno e della sua responsabilità nei confronti di sè e degli altri. Secondo la mia visione, la psicoterapia consiste nella riattivazione delle risorse e delle potenzialità che, per ragioni legate alla propria storia di vita, rimangono inespresse e oscurate.
Credere e sperimentare nel contatto quotidiano, che ogni persona abbia potere ridecisionale su di sè, mi sostiene e mi accompagna con fiducia in questo lavoro, mi conduce a scoprire e valorizzare la ricchezza interiore e personale che c'è in ognuno di noi. Credo nell'indiscutibilità dei valori della singola persona, che ci mettono nella condizione di essere gli unici responsabili delle nostre scelte e quindi depositari della nostra felicità.
Lo scorso sabato, come sapete, ho tenuto un seminario dedicato al tema dell’Autostima nell’ambito del Mese del Benessere psicologico. E’ stata un’interessante mattinata ricca di spunti di riflessione e di confronto nati anche dalle domande dei partecipanti. Ecco un piccolo riassunto dei temi approfonditi durante il seminario.
Abbiamo risposto a quattro domande fondamentali.
Innanzitutto una definizione di “autostima”: è l’atteggiamento che ciascuno ha nei confronti di se stesso a livello cognitivo (Cosa penso di me?), a livello emotivo (Cosa provo per me?) e a livello comportamentale (Cosa faccio per me?). I problemi di autostima nascono dalla discrepanza tra il Sé ideale (Come vorrei essere?) e il Sé percepito (Come mi vedo?). Insieme abbiamo tracciato il profilo di una persona con bassa autostima ed una persona con alta autostima anche a partire dalle esperienze di tutti.
Per rispondere alla seconda domanda ho illustrato i temi delle valutazioni interne (Cosa dico a me stesso?) e delle valutazioni esterne (Cosa dicono gli altri di me? Che impatto ha su di me?). In particolare ho approfondito e spiegato come le nostre opinioni, i nostri comportamenti e le nostre aspettative, influenzano la nostra autostima creando un ciclo di rinforzo o di indebolimento.
Attenzione alla critica interna! La critica è la voce interiore che ci attacca e ci giudica e le persone con bassa autostima hanno una voce critica molto forte. Durante il seminario abbiamo visto come riconoscere la propria critica e come identificarne i messaggi nascosti.
Attenzione alle distorsioni cognitive! Come leggiamo la realtà? Le distorsioni sono “abitudini” di pensiero con le quali interpretiamo la realtà. Questo argomento ha suscitato particolare interesse, in quanto ognuno dei partecipanti si è riconosciuto in qualcuna delle distorsioni cognitive presentate.
Attenzione ai "devo"! I “devo” stabiliscono le regole su come vivere e sono la base da cui attingiamo i nostri pensieri critici o distorti. Insieme ai partecipanti abbiamo elencato alcuni tra i “devo” più comuni e abbiamo identificato alcune domande che ci possono aiutare ad individuare i nostri “devo”, passo fondamentale per cercare di ridimensionare il senso di obbligo e il senso di colpa.
In conclusione, alcuni tra i concetti fondamentali che supportano l’autostima: la comprensione e la benevolenza che nutriamo per noi stessi, sono l’essenza dell’autostima. Quando ci rivolgiamo a noi con questi sentimenti, tendiamo ad accettare i nostri errori, scegliamo obiettivi raggiungibili, nutriamo aspettative ragionevoli per noi stessi, siamo in grado di essere empatici con noi e gli altri, possiamo diventare assertivi nell’esprimere i nostri bisogni e i nostri desideri.
Ma come riuscire a comprendersi? Come possiamo affermare il nostro valore? Come gestire i propri errori? Che vuol dire essere assertivi? Gli spunti da cui partire per rispondere a queste domande sono molti e meriterebbero di essere approfonditi singolarmente, magari in un altro seminario.
Il dibattito finale mi ha confermato la grande attenzione che viene posta all’autostima in riferimento ai ragazzi, ai figli, sempre più a rischio di scarsa autostima come dimostrano recenti statistiche; attenzione anche al tema dell’assertività sui luoghi di lavoro e al come affrontare, con se stessi, i sensi di colpa.
Ringrazio quanti hanno preso parte alla mattinata e hanno contribuito attivamente alla riuscita dell’incontro. Spunti e domande mi saranno utili per i prossimi seminari. E ringrazio anche il Mese del benessere psicologico che non finisce qui: l’iniziativa SIPAP continua e tutti gli psicologi coinvolti, me inclusa, sono a disposizione per consulenze gratuite.
Nel precedente articolo “Mi sento in colpa…” …” abbiamo definito il senso di colpa come un sentimento che deriva dalla convinzione di poter danneggiare qualcosa o qualcuno. Il senso di colpa è una “risorsa relazionale” che ci orienta nelle relazione sociali, tuttavia può diventare negativo se si traduce in comportamenti autodistruttivi. L’origine di questo complesso sentimento deriva dalle norme culturali trasmesse nei primi anni di vita dalla famiglia d’origine e dalla società.
Ma come alleviare il senso di colpa? Per rispondere a questa domanda utilizzerò alcuni concetti base dell’Analisi Transazionale, teoria psicologica sulla quale si basa il mio modo di concepire la personalità.
Ogni personalità può essere rappresentata da diversi “Stati dell’Io” che si esprimono in funzione delle circostanze:
Alla luce di questa teoria, possiamo rintracciare il senso di colpa nello Stato dell’Io Genitore. Per una personalità sana ed equilibrata abbiamo bisogno di tutti gli Stati dell’Io, se ad esempio, il nostro Bambino interiore è represso da uno Stato dell’Io Genitore molto severo, l’Adulto interiore avrà difficoltà di adattamento nella vita affettiva o anche in quella professionale, a prescindere dalle sue capacità cognitive ed organizzative.
1° passaggio: allearsi con il “Genitore Affettivo”
Utilizziamo il nostro Genitore Affettivo quando siamo davvero in grado di prenderci cura dei nostri bisogni (alimentazione, sonno, svago). Se questa parte è deficitaria, ogni volta che ci sentiamo in colpa per un errore o una mancanza, tenderemo a colpevolizzarci e a sminuirci, anziché prenderci cura di noi stessi nei momenti di difficoltà.
Strategie pratiche: sosteniamo il nostro sistema di valori, regole ed aspettative
Quali sono i valori in cui credo profondamente? Proviamo a tenere saldi dentro di noi questi valori e lasciamo andare quelli indotti dalla società o dalla famiglia in cui “crediamo ma non crediamo davvero”.
2° passaggio: mettere a tacere il “Genitore Normativo”
Il Genitore Normativo ha il compito di proteggere e sviluppare il valore della persona. Se tale funzione è squilibrata, nel momento in cui ci sentiamo in colpa, inizia un’attività assillante che sottolinea ogni errore e sorveglia il nostro dialogo interiore. Attiviamo dunque una parte di noi giudicante e severa che produce un calo della nostra autostima ed un forte senso di colpevolizzazione.
Strategie pratiche: prestiamo attenzione al nostro “senso di onnipotenza”
Il senso di colpa nasce anche da una sopravvalutazione delle nostre capacità o dalla sensazione onnipotente di essere la causa unica dei sentimenti e delle scelte degli altri. Ad esempio pensando “ho fatto piangere mia madre, è tutta colpa mia”, rischiamo di minimizzare l’impatto di altri eventi che possono avere scatenato quel sentimento e rischiamo di svalutare le risorse della persona in questione.
3° passaggio: affidarsi all'“Adulto”
L'Io Adulto ama imparare, capire, elaborare informazioni. È particolarmente prezioso perché è in contatto diretto con la realtà, i bisogni del nostro Bambino e le regole del Genitore interno, rappresenta quindi l’espressione dell’interezza di una persona.
Strategie pratiche: impariamo a valutare in anticipo le conseguenze delle nostre azioni e ricordiamoci che non è possibile cambiare il passato
Il senso di colpa vissuto come auto-denigrazione porta solo alla dissipazione interiore, non cambierà ciò che è avvenuto e non ci aiuterà a renderci migliori. Possiamo pensare al senso di colpa come ad una “scottatura per aver preso troppo sole”: una volta scottati bisogna aver pazienza, ripeterci quanto siamo stati incauti non ci aiuterà a far guarire le nostre bruciature, se vogliamo evitare di bruciarci in futuro, dobbiamo cominciare a pensare a diverse modalità per esporci al sole la prossima volta. Usiamo dunque i nostri errori per pensare a nuove forme di comportamento.
Strategie pratiche: differenziamo tra la “colpa soggettiva” e la “colpa oggettiva”
Valutiamo la differenza tra nostra percezione e la realtà dei fatti. Proviamo a pensare che sia stato un nostro amico a compiere l’azione che ci fa stare così male. Se il senso di colpa è immotivato, probabilmente troveremo molte giustificazioni per il suo operato. Ragionando sui comportamenti altrui, le emozioni non interferiscono con i nostri processi cognitivi e possiamo avere un punto di vista più lucido.
4° passaggio: mettere al sicuro il nostro “Bambino”
Ogni persona porta dentro di sé due bisogni molto importanti ma in contrapposizione tra loro, ossia affermarsi e ricevere approvazione. Crescere e maturare significa dare priorità al bisogno di affermarsi, aprendosi al relativo rischio di non piacere, di non essere accettati.
Strategie pratiche: impariamo ad accettare ciò che di noi ci piace e a tollerare la disapprovazione degli altri
Le nostre azioni possono stimolare delusione negli altri e il senso di colpa spesso nasce dal timore di essere disapprovati. Dimostriamo a noi stessi che possiamo tollerare le reazioni altrui, proviamo a fondare la nostra approvazione su noi stessi. Riconosciamo le azioni commesse e accettiamo le emozioni provate, esse sono importanti, autentiche e possiamo renderle preziose usandole come guida per il futuro.
Strategie pratiche: iniziamo un percorso di psicoterapia
Per affrontare i sensi di colpa è importante individuarne la fonte, liberarsi di fardelli pesanti che spesso non riguardano più quello che siamo o che facciamo oggi, ma solo quello che siamo stati o che abbiamo vissuto. La psicoterapia, inoltre, ci può aiutare a capire cosa stiamo evitando rimanendo focalizzati sul senso di colpa. Ad esempio ci può capitare di sentirci in colpa per un’azione (“Ho una relazione extra-coniugale”; “Mangio continuamente”) ma di continuare a ripeterla nonostante la sofferenza. Il senso di colpa può distrarci dal porci delle domande più dolorose (“Cosa voglio dalla mia relazione?”; “A cosa mi serve mangiare di continuo?”). Lavorare su se stessi è una sorta di ritorno all'autenticità, uno sforzo ad essere connessi con i nostri reali bisogni nel qui ed ora.
"Mi sento in colpa…" non è solo un modo di dire piuttosto ricorrente, il senso di colpa è un sentimento, un mix di elementi emotivi e cognitivi, che deriva dalla convinzione, a volte ingiustificata, di poter danneggiare qualcuno o qualcosa.
Il senso di colpa è una “risorsa relazionale”, è correlato all’altruismo e all’empatia e ci spinge ad osservare le conseguenze delle nostre azioni, ci permette quindi di prendere coscienza dell'altro, ci costringe ad una messa in discussione e ad un'assunzione di responsabilità sociale.
Il senso di colpa diventa negativo quando si trasforma in comportamenti autodistruttivi e autolimitanti. Può accadere che la colpa non sia necessariamente associata ad una esperienza di vita pratica, ma nasca da un senso di inadeguatezza non compreso, da un senso di inferiorità, può quindi scaturire da scenari inconsci, trasformandosi in un'angoscia legata alla convinzione di essere incapaci di essere apprezzati o di poter danneggiare gli altri.
Nella maggior parte dei casi il senso di colpa nasce da un “devo”: “non devo far soffrire gli altri”, “devo essere sempre disponibile”. Ci sentiamo in colpa ogni volta che i nostri pensieri o il nostro comportamento non sono all’altezza dei nostri ideali.
Il senso di colpa detto “residuo” è la reazione emotiva scatenata dai ricordi dell'infanzia. Si riallaccia a frasi del tipo: “devi vergognarti per ciò che hai fatto”. Da bambini assorbiamo non solo alcuni degli ideali dei nostri genitori, ad esempio “devi sempre sforzarti nella vita”, ma assorbiamo anche i loro atteggiamenti correttivi: castigo; rabbia o frustrazione; senso di vergogna; rigetto per l’errore commesso. Da adulti tendiamo a ripetere i loro metodi interiorizzando un nostro genitore “correttivo o punitivo”. Il senso di colpa deriva quindi da norme, divieti ed ordini interiorizzati in maniera rigida e porta a reprimere i propri bisogni ed il proprio progetto di vita.
Esiste anche un senso di colpa “autoimposto” che porta la persona a rimanere immobilizzato dal dolore e dalla vergogna che si autoinfligge come punizione per aver commesso azioni che violano un sistema di valori che egli stesso si è dato. È il senso di colpa di chi per esempio ha imparato che “non deve essere troppo indulgente con se stesso”.
Spesso si “sceglie” più o meno consapevolmente, il senso di colpa come compromesso di resistenza al cambiamento e di adattamento alle aspettative altrui:
Dopo aver illustrato cosa è il senso di colpa e da dove ha origine, viene spontaneo chiedersi come contrastare questo sentimento tanto complesso e tanto vincolante. Questa forse è tra le domande più stimolanti sul tema, per questo ho deciso di dedicargli un articolo a parte che pubblicherò prossimamente.
Non solo le emozioni possono essere intelligenti, ma esistono anche molteplici tipi di intelligenza!
La teoria delle intelligenze multiple di Gardner (1993) ha sfidato il tradizionale punto di vista dell’intelligenza considerata come una capacità unitaria che può essere misurata attraverso i test. Gardner presentò nove abilità mentali indipendenti per ogni persona:
Dunque le emozioni non solo possono essere intelligenti, ma l’intelligenza può essere emotiva!
Una persona mostra una buona intelligenza emotiva quando è capace di motivare se stesso e di perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, quando è in grado di controllare gli impulsi e di rimandare la gratificazione, quando è capace di essere empatico e di sperare. Nessuno può ancora dire esattamente quanto l’unicità di ogni persona sia dovuta all’intelligenza emotiva (Goleman, 1995).
Salovey (1990) nella sua definizione di intelligenza emotiva include le intelligenze personali di Gardner, estendendo questa abilità a cinque ambiti principali:
Le persone emotivamente intelligenti sono socialmente equilibrate, espansive e non sono soggette a paure di natura ansiosa. Hanno la capacità di dedicarsi ad altre persone e di assumersi la responsabilità di avere prospettive etiche e morali. In generale queste persone tendono ad essere sicure di sé ed esprimono i propri sentimenti in modo diretto.
Ci tengo a sottolineare che tutte le eventuali carenze della nostra intelligenza emozionale possono essere migliorate in qualsiasi momento della nostra vita!
In occasione del Mese del Benessere Psicologico, come vi ho anticipato, parteciperò attivamente anche io con consulenze gratuite e un seminario dedicato al tema dell’autostima, che si terrà sabato 11 ottobre 2014, dalle ore 10:30 – 12:30 nella Sala Multimediale della Chiesa S. Maria delle Grazie, Via della Bufalotta, 674 Roma.
Se ne sente parlare spesso e spesso mi viene chiesto che cosa sia l’autostima e se sia possibile potenziarla per stare meglio con se stessi e con gli altri. La risposta è articolata ed ecco l’idea di organizzare un seminario che rappresenti un’opportunità per approfondire il discorso a 360° e rispondere a queste e altre curiosità.
Se volete saperne di più, potete cliccare qui per andare alla pagina ufficiale e prenotarvi al seminario.
Mi farebbe piacere se partecipaste numerosi!
Nel linguaggio comune il termine “stress” assume il senso di tensione, preoccupazione, senso di malessere diffuso, ma in psicologia cos’è lo stress?
Lo stress è la risposta psico-fisica che si manifesta quando siamo sottoposti a situazioni (positive o negative) che richiedono un cambiamento.
In realtà, lo stress non è né positivo né negativo, è una spinta all’adattamento, una forma di energia che ci aiuta a raggiungere un obiettivo. Lo stress svolge un ruolo adattivo molto importante nella nostra vita, solo se l’individuo non riesce a fronteggiare adeguatamente gli stimoli esterni insorgono condizioni di disagio.
Lo stress non è solo qualcosa che sta al di fuori, nell’ambiente che ci circonda, ma è anche il risultato di un processo di valutazione dell’individuo. Questa mediazione psicologica ci aiuta a capire come mai “ciò che è stressante per me, può non esserlo per te”. A fare la differenza è il peso emotivo che diamo all'evento e come giudichiamo la nostra capacità di affrontarlo.
Hans Selye, il pioniere dello studio sullo stress, descrive il processo stressogeno suddividendolo in tre fasi:
I campanelli d'allarme che per molto tempo possono averci infastidito, possono diventare sintomi di una malattia e lo stress attacca il nostro corpo nei suoi punti più vulnerabili. Un livello elevato di stress può essere ridotto facendo ricorso a:
A chi non è mai capitato di arrabbiarsi? Spesso la rabbia viene considerata un’emozione negativa da reprimere, inopportuna, irragionevole e associata all’aggressività. La realtà è che la sua carica distruttiva dipende dall’uso che se ne fa, o meglio, che non se ne fa.
La rabbia diventa dannosa quando non viene riconosciuta, quando si tenta di negarla. La rabbia repressa infatti può alimentare sentimenti depressivi e di inferiorità e il nostro corpo può darci segnali di sofferenza attraverso manifestazioni psicosomatiche come psoriasi, gastriti, mal di testa.
La rabbia è un importante “segnale di allarme”, ci comunica che qualcosa non va e ci predispone ad agire in senso protettivo per noi stessi. La rabbia può segnalarci che i nostri diritti sono stati violati, che i nostri bisogni non sono appagati, ci segnala che ci sentiamo insoddisfatti o frustrati. Ascoltare la propria rabbia ci aiuta quindi ad essere autentici con noi stessi e con gli altri.
Non tutte le modalità sono adeguate. Riabilitare la rabbia non significa certo urlare o essere aggressivi. Dietro la rabbia si cela sempre un dolore o una insoddisfazione e agire in modo aggressivo certamente è un modo per disperdere la propria energia ed evitare di sentire il dolore sottostante. Affinché i nostri sentimenti siano ascoltati è necessario, sempre e in ogni occasione, esprimere con calma e a parole il proprio stato d'animo.
Prenditi una pausa e parla con un amico. Spesso è indispensabile allontanarsi dalla situazione che ha innescato la rabbia e rimandare la comunicazione: “in questo momento sono molto arrabbiato e non sono in grado di parlare costruttivamente con te, ne parliamo quando sarò più calmo”. Inoltre, scaricare il primo moto di collera con un amico può aiutarci ad adottare successivamente un approccio disteso nella conversazione e acquisire eventualmente, grazie al confronto, un nuovo punto di vista.
Chiarisciti le idee. È importante avere chiaro ciò che si prova e cosa si ha intenzione di comunicare all’altro, ponendosi degli interrogativi, ad esempio:
Comunica le tue opinioni. È utile adottare uno stile assertivo di comunicazione evitando accuse e ingiurie, in quanto l’obiettivo è quello di ristabilire un equilibrio e non di prevaricare l’altro. Lo psicoterapeuta T. Gordon propone il sistema dei messaggi-io basato sulle seguenti linee guida:
Vivi profondamente la tua rabbia. Se siamo in un luogo sicuro, da soli, con un amico o con un terapeuta, permettiamoci di parlare ad alta voce, di urlare, di scalciare e colpire cuscini. In tal modo si affievolisce l'istinto di compiere un atto aggressivo e saremo più capaci di affrontare efficacemente le situazioni che si presentano. Un altro modo per esprimere la propria collera è ricorrere all’esercizio fisico e ad esercizi di rilassamento.
Chiedi aiuto se necessario. Imparare a gestire la rabbia è una sfida per chiunque, ci sono dei momenti della propria vita in cui la rabbia diventa incontenibile ed in questi casi è importante considerare la possibilità di consultare uno psicoterapeuta.
Uno degli strumenti più validi si chiama active listening, ossia ascolto attivo, che può essere sintetizzato in tre momenti:
La rabbia è semplicemente un’emozione come la tristezza, la gioia, la paura e tutte le emozioni non sono altro che impulsi ad agire, piani di azione di cui ci ha dotati l’evoluzione per gestire al meglio la nostra vita.
La nostra vita come figli è in parte un capitolo della storia dei nostri genitori. Ogni generazione è influenza da quella precedente e influenza quella successiva. Anche se i nostri genitori possono aver fatto del loro meglio, possiamo aver avuto esperienze precoci che non vorremmo trasmettere ai nostri figli. Eppure da adulti ci ritroviamo a comportarci come faceva mamma con noi o a parlare a nostro figlio o al nostro partner come ci parlava papà… ma anche se molto spesso ci ritroviamo “attaccati” comportamenti che abbiamo a nostra volta ricevuto da bambini, non siamo destinati a ripetere obbligatoriamente i pattern dei nostri genitori o del nostro passato.
Se riusciamo a comprendere il senso della storia della nostra vita possiamo costruire esperienze positive che ci consentono di andare oltre i limiti posti dal nostro passato e di creare un modo diverso di vivere per noi.
Riflettere sulle esperienze della nostra infanzia può aiutarci a dare un senso alla storia della nostra vita… ma gli eventi della nostra infanzia non possono essere cambiati! Vero. Ma allora perché è utile una simile riflessione? Una comprensione profonda di noi stessi può cambiare ciò che siamo.
Dare un significato alla nostra storia ci dà la possibilità di scegliere i nostri comportamenti e di aprire la nostra mente ad uno spettro più ampio di esperienze, di avere un modo di comunicare con il nostro partner e con i nostri futuri figli che promuova sicurezza nel loro attaccamento.
Innanzitutto che cos’è l’attaccamento? È un sistema dinamico di comportamenti che sostengono e creano un legame specifico tra due persone, in cui si percepisce il bisogno di stare vicino emotivamente e fisicamente all’altro di riferimento.
Ognuno di noi presenta un atteggiamento generale rispetto all’attaccamento, sviluppato nell’infanzia verso i nostri genitori, che influenza e si ripropone nelle nostre relazioni da adulti. Le modalità e i contenuti con cui raccontiamo le storie della nostra vita infantile lasciano trasparire la tipologia del nostro attaccamento.
Di seguito riporto le correlazioni emerse dalle ricerche della psicologa Main (2003): in base al tipo di attaccamento che abbiamo sviluppato da bambini è possibile prevedere che attaccamento avremo da adulti nei confronti del nostro partner e dei nostri figli.
Bambino | Adulto | |
Sicuro | Libero e autonomo | |
Ambivalente | Preoccupato o invischiato | |
Disorganizzato | Non risolto / disorganizzato |
Le persone che riescono a parlare delle esperienze vissute nella loro storia e nel loro attaccamento, mostrano delle narrazioni caratterizzate da flessibilità, oggettività e capacità di valutare l’importanza delle relazioni interpersonali. Le narrazioni risultano coerenti e riescono ad integrare nei loro discorsi il passato, il presente e ciò che li aspetta dal futuro.
Questo attaccamento si mostra nelle persone che hanno avuto esperienze infantili dominate da una mancanza di disponibilità emozionale e da comportamenti di rifiuto da parte dei genitori. Può capitare che una volta diventati genitori, questi adulti si mostrano scarsamente sensibili rispetto ai segnali che inviano i figli e il loro mondo interiore sembra avere come componente fondamentale l’indipendenza. Le esperienze infantili raccontano di un “isolamento emotivo”, di un ambiente famigliare freddo e molto spesso sostengono di non ricordare le esperienze vissute da bambini. Nella loro vita sembra mancare un senso al ruolo che gli altri o il passato possono aver esercitato sul loro sviluppo, tenderanno quindi a svalutare la rilevanza delle relazioni interpersonali nella loro vita.
È frequente nelle persone che nei primi anni di vita hanno avuto esperienze di genitori che si prendevano cura di loro in modo incostante e imprevedibile. Spesso questi adulti diventano genitori pieni di dubbi e paura per quanto riguarda la possibilità di fare affidamento sugli altri e presentano un atteggiamento di base preoccupato caratterizzato da ansia, incertezza e ambivalenza verso le persone significative della loro vita presente. Le loro narrazioni sono in genere ricche di aneddoti che rivelano come questioni del passato lasciate in sospeso continuano ad entrare prepotentemente nel presente e tali intrusioni hanno un impatto negativo sulla capacità di rispondere in maniera flessibile a ciò che sta capitando nel qui ed ora.
Persone che hanno vissuto perdite o traumi rimasti irrisolti possono entrare improvvisamente in stati che risultano allarmati o disorientati. Una volta diventati genitori per esempio possono apparire distanti ed estraniati quando il loro bambino è irrequieto o manifestare segni di disagio, oppure possono arrabbiarsi e diventare minacciosi se un bambino eccitato corre cantando “troppo forte”. Ma perché succede questo? La presenza di elementi non risolti determina un’interruzione nei flussi di informazioni nella mente e riduce le capacità di raggiungere un equilibrio emozionale e quindi di mantenere una relazione flessibile con gli altri. Questi processi influenzano in modo diretto le relazioni significative con gli altri nel presente.
Essere consapevoli della nostra storia ci può aiutare a vivere meglio con gli altri e a diventare genitori flessibili e accoglienti. Diversi studi (Siegel - Hartzell, 2005) dimostrano che uno stato di attaccamento sicuro può essere “acquisito” in età adulta attraverso un processo di crescita associato a relazioni positive con amici, partner, insegnanti o terapeuti.
Incominciare cercando di approfondire la conoscenza che abbiamo di noi stessi e della nostra infanzia ci aiuta ad elaborare una storia coerente della nostra vita e ci permette di unire e integrare i temi del nostro passato con quelli del nostro presente, mentre ci muoviamo verso il futuro.
Il cioccolato è uno degli alimenti più consumati in tutto il mondo e viene definito il “cibo del buon umore”, ma vero che mangiare cioccolata genera benessere? I risultati degli studi sono controversi.
Mangiare cioccolata stimola la produzione di serotonina e di endorfine capaci di produrre un effetto di innalzamento del tono dell’umore. Il cacao contiene monoammine, tra cui la feniletilammina che è capace di produrre le stesse sensazioni che sperimenta una persona innamorata. Il consumo di cioccolato può offrire dunque sensazioni di rilassamento e di felicità (Università di Helsinki, in Finlandia).
Il cacao è anche uno stimolante naturale, può provocare un incremento dell’attenzione, dello stato di allerta e del rendimento mentale. Gli studenti che bevono una tazza di cioccolato risultano più efficienti intellettualmente di quelli che non lo bevono (Università di Wheeling in West Virginia). Il cacao, inoltre, ha effetti antiossidanti, di prevenzione delle malattie cardiovascolari e di alcune forme di cancro (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione).
Una cosa è certa: consumare cioccolata procura piacere e si associa all’attivazione di molte funzioni psicologiche. Il piacere della cioccolata può quindi generare benessere e predisporre a comportamenti sociali amorevoli (Lorenzini, Scarinci, 2013).
Gli studi condotti fino ad oggi indicano che l’assunzione quotidiana di 50 grammi di cioccolato fondente per 3 giorni riduce i sintomi dello stress, dell’ansia e della depressione. In generale, il consiglio più diffuso sembra essere quello di non farsene mancare circa 28 grammi al giorno.
Tuttavia, altre ricerche attestano risultati esattamente contrari: il cioccolato potrebbe essere una concausa importante di infelicità, sbalzi d’umore e depressione. Il consumo di cioccolato può dare dipendenza, in quanto può essere consumato per appagare il proprio vuoto affettivo, per noia, per appagare un desiderio in modo rapido e compulsivo; può condurre all’obesità, alla perdita di controllo sui propri impulsi e addirittura alla perdita di autostima (Associazione Dietetica e della Nutrizione Britannica).
Infine, una ricerca australiana (pubblicata su Journal of Affective Disorders) esclude l’effetto benefico della cioccolata sull’umore: “La cioccolata può fornire un piacere emotivo, soddisfacendo un desiderio, ma quando viene consumata per avere un conforto o per vincere il malumore, è più probabile che sia associata a un prolungamento dello stato d’animo negativo, piuttosto che alla sua fine”.
Il cioccolato, come tanti altri alimenti o sostanze, ci mostra i suoi effetti positivi ma anche i suoi lati negativi: può dare piacere, calore, appagare, ma può anche indurre l'aumento di peso, rendere dipendenti e influire negativamente. Certamente è importante distinguere tra il cacao puro e il cioccolato ricco di grassi, zuccheri e calorie.
Ippocrate sosteneva che “è la dose che fa il veleno”. Consumare cioccolato dovrebbe essere un momento di piacere e non un modo per tentare di controllare o sfogare le proprie emozioni. Evitate quindi di assumere cioccolata quando vi sentite in ansia, tristi o stressati e cercate invece di rimanere in ascolto delle vostre emozioni e dei vostri bisogni e di mangiare del buon cioccolato fondente con moderazione.
Ognuno di noi guarda la vita e il futuro in un modo diverso. Alcuni di noi vivono con preoccupazione ed ansia, focalizzano la propria attenzione sulle difficoltà incontrate o da affrontare, piuttosto che sulle gioie e i successi ottenuti; queste persone sono i cosiddetti pessimisti. Altri invece tendono a valutare la vita con serenità ed entusiasmo, considerano le difficoltà come opportunità di crescita, più che come insidie e ostacoli insormontabili; questi ultimi sono gli ottimisti.
In generale possiamo affermare che:
Gli effetti negativi del pessimismo e delle emozioni correlate (rabbia, ansia, depressione…) sulla nostra salute sono facilmente riconoscibili, ma se è vero che uno stato cronico di sofferenza psicologica è tossico per il nostro organismo e la nostra mente, è anche vero che le emozioni opposte possono avere un effetto tonificante. Con questo non voglio affermare che l’ottimismo e le emozioni positive (la gioia, l’entusiasmo, la curiosità…) o una semplice risata cambierà il decorso della nostra giornata.
Diversi studi hanno messo in luce che i pessimisti più facilmente si arrendono di fronte alle difficoltà, hanno meno successo nel lavoro, cadono più spesso in depressione e si ammalano più facilmente. Al contrario le persone ottimiste rendono meglio nello studio, nel lavoro e nello sport. Inoltre sembra che gli ottimisti siano più abili nei test attitudinali e tendano ad essere scelti più spesso dei pessimisti quando concorrono a cariche dirigenziali. Infine si è rilevato che le persone ottimiste godano di uno stato di salute buono: infatti sembra che il loro sistema immunitario sia più efficiente e risentono meno dei consueti malanni fisici.
In uno studio (Goleman, 2011) venne valutato il livello di ottimismo o pessimismo di 122 uomini sopravvissuti ad un attacco di cuore. Otto anni dopo dei 25 uomini più pessimisti, 21 erano morti; dei 25 più ottimisti ne erano morti solo 6. La loro predisposizione mentale fu rivelatrice della loro possibilità di sopravvivenza più di qualunque altro fattore di rischio medico.
Per rispondere a queste domande farò riferimento agli studi di Martin Seligman (1996) che è un autorevole studioso del settore.
Seligman sostiene che alla base dell’ottimismo e del pessimismo ci sono due elementi:
Le persone che si vivono come impotenti saranno, con maggiore probabilità, più pessimiste delle persone che, al contrario, credono di poter modificare circostanze ed eventi così da raggiungere obiettivi e successi desiderati.
Tuttavia la percezione di sentirsi impotenti o meno, cioè capaci di controllare ciò che ci accade o meno, si costruisce sulla base di come ciascuno si spiega gli eventi negativi o positivi con cui ha a che fare nella vita.
Seligman ritiene che ciascuna persona abbia un proprio stile esplicativo, cioè una propria modalità di interpretare le cause degli eventi: tale modalità si origina dalla visione che ciascuno ha del proprio posto nel mondo, dal percepirsi come persona degna di valore e meritevole oppure indegna e immeritevole. Nel primo caso avremo facilmente a che fare con una persona ottimista, nel secondo con una pessimista.
Nello specifico lo stile esplicativo è caratterizzato da tre dimensioni cruciali:
Possiamo quindi affermare che ottimisti o pessimisti non si nasce, ma lo si diventa. Secondo Seligman, l'ottimismo può essere appreso e, con sollievo di tutti i pessimisti, anch'essi possono sperare di diventare un giorno ottimisti, ma solo dopo aver imparato una serie di abilità, come il modo soggettivo di interpretare gli eventi, l’ottimismo quindi si può apprendere con l’esercizio e la flessibilità di pensiero.
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L’ottimismo è l’attitudine a giudicare favorevolmente lo stato e il divenire della realtà e della vita. Il pessimismo è l’atteggiamento costante e sistematico di sfiducia nei confronti della realtà e della vita.