Articoli di Psicologia e Psicoterapia
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...E chi dice che essere timidi sia un male!?
Scritto da Dott.ssa Valentina Sparatore – Psicologa Clinica – Psicoterapeuta - Consultazione GenitorialeUn comportamento timido è spesso considerato un pregio quando la timidezza è moderata. In generale, le persone timide tendono ad essere apprezzate per la loro riservatezza, sensibilità e rispetto dei protocolli sociali. Se sei moderatamente timido, dunque, nulla ti impedisce di goderti appieno la vita e raggiungere gli obiettivi a cui tieni.
Ma cosa succede quando questa timidezza diventa pervasiva?
A tutti può capitare di sperimentare, talvolta, ansia o vergogna all’idea di parlare in pubblico o fare nuove conoscenze. Tuttavia, le persone che soffrono di una forma estrema di timidezza, pur rendendosi conto della irragionevolezza dei propri timori, si preoccupano di queste e altre cose settimane prima che accadano. La paura del giudizio degli altri, l’imbarazzo, la vergogna, i sentimenti di inadeguatezza e di inferiorità, possono risultare così intensi da rendere difficile lo svolgimento di quelle normali attività quotidiane che richiedono le interazioni con gli altri.
Timidezza versus ansia sociale
Se ti sembra che i vissuti sotto elencati ti descrivano, con molta probabilità soffri di ansia sociale:
· Paura che qualcuno osservi quello che stai facendo.
· Riluttanza a prendere accordi o anche a fare telefonate.
· Difficoltà nel presentare un reclamo, anche se hai ragione
· Paura di parlare in pubblico.
· Tendenza ad evitare i luoghi dove ci sono molte persone.
· Timori che i tuoi interventi possano essere giudicati, da chi ti ascolta, ridicoli o inappropriati.
· Paura di essere criticato e di fare una brutta figura.
Queste paure si accompagnano ad alcune manifestazioni fisiologiche, tra le quali battito del cuore accelerato, eccessiva sudorazione, gola e bocca secca, rossore sul volto, tremore della voce, tensioni muscolari.
Quando la soluzione peggiora le cose
Questa forma di ansia non consente di utilizzare appieno le risorse personali, così ti può facilmente capitare di perdere la concentrazione, dimenticare le cose e trovare difficile dare un ordine logico a ciò che vuoi dire, proprio perché le emozioni prendono il sopravvento. A questo punto, il tuo incubo peggiore si realizza ed hai la “conferma” di essere inadeguato e incompetente, rimanendo così intrappolato in un circolo vizioso che ti porta a fare tutto il possibile per tenere lontano il disagio legato all’incontro con l’altro. L’insicurezza personale e i comportamenti di ritiro si alimentano a vicenda, così, un giorno dopo l’altro, ti ritrovi sempre più isolato, insicuro e triste.
Ansia sociale e bassa autostima
Generalmente, all’ansia sociale si accompagna una bassa autostima. Le persone che, nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, hanno ricevuto molte critiche (talvolta manifestate in modo meno esplicito, attraverso continui confronti), tendono a sentirsi spesso inadeguate e a sottovalutare le proprie capacità, finendo per sentirsi insicure. Oltre alle critiche, anche comportamenti genitoriali orientati al perfezionismo o all’ iperprotezione generano nel bambino scarsa fiducia in se stesso, che può alimentare la timidezza estrema.
Qualche trucco per gestire la timidezza
1. Evita di evitare: tieni presente che continuare ad evitare le situazioni che ti creano disagio, le rende sempre più spaventose ai tuoi occhi, quindi, la prima raccomandazione che mi sento di farti, è di cominciare ad “evitare di evitare.”
2. Comincia con chi ti è più vicino, finché non ti abitui ad avviare conversazioni: mantieni il contatto visivo, esprimi le tue idee e le tue emozioni piano, piano ti sentirai più a tuo agio e amplierai il tuo raggio di azione.
3. Allenati con carta e penna! Scrivi l’interazione su un blocco notes e fai un po' di prove davanti allo specchio, finché non ti senti più a tuo agio.
4. Non preoccuparti del giudizio degli altri: Parte del tuo malessere è legato all’immaginare le critiche degli altri nei tuoi confronti. Questo accade perché tu stesso ti critichi molto ma tieni presente che i tuoi giudizi negativi su di te non si basano su dati di realtà ma sull’idea negativa che ti sei fatto nella tua storia.
5. Pratica la tua assertività e non aver paura di essere spontaneo. Se impari a esprimere le tue opinioni e a dire dei sani NO, gli altri lo apprezzeranno.
Cosa può fare la psicoterapia per la tua timidezza
Un percorso di psicoterapia specificatamente cucito su di te, può aiutarti a migliorare la tua autostima e ad avere più fiducia nelle tue capacità. Utilizzo un approccio integrato, che include anche tecniche all’avanguardia “evidence based” come l’EMDR.
Attacchi di panico... il primo passo fuori dal tunnel
Scritto da Dott.ssa Valentina Sparatore – Psicologa Clinica – Psicoterapeuta - Consultazione GenitorialeStai percorrendo il raccordo in macchina, è una bella giornata primaverile, ascolti la musica, la temperatura dell’aria è piacevolmente tiepida; è tutto ok. All'improvviso e senza una apparente buona ragione (o almeno così ti sembra), la testa diventa vuota, il battito del cuore comincia a rimbombare nel petto, un groppo alla gola, la sensazione di soffocare e il bisogno di respirare sempre più profondamente; il respiro si fa affannoso, gocce di sudore imperlano la fronte, ansimi, tutto ti sembra strano...distorto, le gambe tremano...
Ti assale una intensa paura; il primo pensiero è che si tratta di un attacco cardiaco, forse un ictus: stai per morire. Accosti velocemente la macchina e cerchi di chiamare qualcuno che ti venga a prendere e ti porti quanto prima al pronto soccorso... e nel frattempo prendi una decisione: se sopravvivi, il raccordo non lo farai mai più!
La spirale ha inizio
Si è trattato di un attacco di panico, la forma più acuta e intensa dell'ansia, che si presenta come una crisi che si consuma in circa 10 minuti. In genere, chi ha avuto uno o più attacchi di panico, tende ad avere paura che questa esperienza si ripresenti; così, la paura della paura porta ad evitare il raccordo, l'autostrada, la metro e così via. La persona non se ne rende conto ma, in realtà, non sta scappando dalla metropolitana, dal raccordo o dall'autostrada: sta fuggendo dal proprio panico e dal malessere che esso comporta, un malessere anche somatico che è molto importante imparare a decifrare, altrimenti, ogni tachicardia diventa il chiaro sintomo di un infarto, ogni giramento di testa è sicuramente un ictus e così via.
Comprendere gli aspetti organici dell’attacco di panico non equivale a guarire ma, certamente, ne è la premessa indispensabile.
Noi come gli animali
Per descrivere i molti effetti che l’ansia produce sul nostro corpo, può essere utile ricorrere ad una analogia con il mondo animale.
Immaginiamo un branco di bufali brucare l’erba sotto il sole della savana. Qualche esemplare cerca di insidiare una femmina; mangia, digerisce, si accoppia. E' sereno e tranquillo. La respirazione ed il battito cardiaco sono lenti e regolari. All'improvviso spunta un leone. Se il bufalo continuasse a brucare in tutta tranquillità, l’azione di caccia del leone finirebbe qua (e con successo). Tuttavia, la natura non si arrende così facilmente ed ecco che scatta una condizione fisiologica del tutto diversa dalla precedente: il bufalo passa da uno stato di calma ad uno di allarme. Il corpo si prepara ad attaccare o fuggire dal predatore ma per fare questo, deve avere i muscoli pronti a scattare. La tensione estrema dei muscoli porta a tremori che possono manifestarsi con scosse fini o grossolane. I muscoli hanno bisogno di più ossigeno; niente di meglio che respirare di più. Respirando più del necessario, ci si sente come ubriachi, estranei alla propria persona, tutto attorno sembra alterato nella forma e nelle proporzioni. Possono comparire vertigini, brividi, formicolii alle estremità. Per far sì che questo ossigeno sia disponibile, il cuore batte molto rapidamente e la pressione aumenta. Questa intensa attivazione rappresenta per il nostro bufalo l’unica possibilità di salvarsi ma può essere angosciante se vissuta da una persona in coda sul raccordo o in un aereo, per di più in assenza di un famelico leone che possa ragionevolmente giustificarne la presenza.
Se si prova una intensa paura in situazioni che gli altri tollerano benissimo, è inevitabile pensare: “sto diventando pazzo, morirò…non ho il controllo...”
I primi passi fuori dal tunnel
Il primo passo per uscire dal tunnel è comprendere che si tratta di una reazione naturale del corpo di fronte ad una minaccia, quindi tieni a mente che anche se davanti a te non c’è un leone, il tuo corpo sta reagendo come se ci fosse, poiché evidentemente hai percepito uno stimolo come molto pericoloso per te. A questo punto, il tuo organismo ha avviato una catena di reazioni e sensazioni corporee di per sé innocue. L’attacco di panico ha luogo proprio nel momento in cui leggerai tali innocue sensazioni come molto pericolose per te. Ricorda che il pericolo di morte incombente non è reale. Tieni inoltre a mente che queste reazioni fisiche hanno un tempo limitato, con un inizio, una fase crescente ed una fine. Ciò vuol dire che al culmine dell’attacco c’è… la fine dell’attacco. Nulla di più.
Nel nostro studio, trattiamo il Disturbo di Panico attraverso un modello integrato che include l’utilizzo dell’EMDR, proprio in considerazione del fatto gli attacchi siano vissuti come eventi talmente angoscianti e imprevedibili, da indurre risposte di paura e/o impotenza anche estrema, esattamente come accade nel caso di importanti accadimenti traumatici.
Coronavirus: come rispondere alle domande dei bambini?
Scritto da Dott.ssa Valentina Sparatore – Psicologa Clinica – Psicoterapeuta - Consultazione GenitorialeOrmai tutti sappiamo che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la pandemia e preso provvedimenti molti drastici che confinano noi tutti entro le mura domestiche. Ogni giorno, quasi tutti i canali tv fanno il bollettino dei contagiati e dei morti, in aree geografiche che si estendono sempre più. I nostri figli sono a casa, si sorbiscono questa diretta ma cosa stanno capendo di tutto questo? E soprattutto...è giusto parlarne con loro? E in che modo?
E' molto importante parlarne apertamente, fornendo loro informazioni corrette ma in una modalità adeguata all'età. I bambini, con o senza il nostro aiuto, cercano di dare un senso a ciò che accade. Lasciarli soli in questo compito equivale a chieder loro di occuparsi da soli delle loro paure, affidandosi alle informazioni che hanno acquisito in modo probabilmente distorto e alla fantasia.
Cosa fare?
Prima di tutto, Scegli un momento al giorno in cui vedere/leggere insieme le informazioni aggiornate, meglio se su un sito preventivamente visionato.
Evita l'esposizione continua alle informazioni perché è inutile ed elicita paura ed uno stato di allerta.
Cosa spiegare ai bambini riguardo al coronavirus?
Vale sempre la regola di dire la verità, in modo semplice.
Cos'è il coronavirus?
È un virus che è stato scoperto in Cina e che si è diffuso rapidamente, fino ad arrivare in Europa.
Come si trasmette?
Si trasmette da una persona infetta ad una sana attraverso i fluidi corporei, come le goccioline che possono uscire dalla bocca durante un colpo di tosse o uno starnuto. Per questo in tv e per strada, si vedono molte persone con le mascherine
E' pericoloso?
Il contagio avviene con gran facilità. La maggior parte delle persone ha sintomi lievi, simili a quelli dell'influenza ma deve rimanere a casa per evitare di infettare gli altri. Alcune persone hanno bisogno di essere curate in ospedale. Quasi tutte le persone che vengono ricoverate guariscono ma alcune sono morte, fortunatamente molto poche (rispetto al numero di contagiati, è la verità. Tanti professionisti esperti si stanno prendendo cura delle persone che hanno bisogno di assistenza e stanno cercando le medicine più adatte. Tra un po’ di tempo sarà sicuramente disponibile un vaccino; nel frattempo continuiamo a prendere alcune importanti precauzioni.
Perché non posso giocare con gli altri bambini o andare a scuola?
Ci sono delle cose semplici ma molto importanti che noi possiamo fare per combattere contro questo virus; una di queste è rimanere a casa ed evitare il contatto con gli altri; questo perché il coronavirus si contagia molto rapidamente; se rimaniamo a casa glielo impediamo. Inoltre, dobbiamo lavarci spesso le mani e, se ci viene da tossire, farlo in un fazzoletto di carta o nel braccio.
Guarire dal trauma con la tecnica dell'EMDR
Scritto da Dott.ssa Valentina Sparatore – Psicologa Clinica – Psicoterapeuta - Consultazione GenitorialeL'EMDR è una efficace tecnica psicoterapeutica che porta un rapido e duraturo sollievo alla maggior parte dei pazienti che soffrono di ansia, panico, depressione, ricordi inquietanti e molti altri problemi emotivi che, di fatto, non sono altro che ripercussioni emotive di traumi con la t minuscola o Traumi con la T maiuscola accaduti in un tempo recente o anche lontano.
Come funziona l'EMDR?
L'EMDR poggia concettualmente sul modello AIP (Elaborazione Adattiva dell’Informazione) che implica 3 presupposti:
- Il nostro cervello possiede una innata capacità di elaborare le esperienze negative, stressanti o traumatiche, attivando un processo di “autoguarigione” (così come lo stomaco è fisiologicamente in grado di digerire ciò che mangiamo)
- Un evento traumatico (la perdita di una persona cara, una diagnosi che ci ha fatto sentire in pericolo, un avvenimento fortemente stressante che ci ha fatto perdere quel senso di sicurezza che davamo per scontato) può bloccare la naturale capacità del cervello di attuare il processo di “digestione” dell’esperienza.
- L'EMDR fornisce uno stimolo che consente al cervello di riavviare il naturale sistema di auto-guarigione: la brutta esperienza viene così “digerita” e possiamo ricordarla senza sentirne più il sapore emotivo.
Per comprendere l'effetto dell'EMDR sul trauma è utile tenere presente che le esperienze rimangono fisicamente in memoria sotto forma di connessioni tra reti neurali. E’ proprio in queste connessioni che il cervello registra il malessere. Non solo; in caso di esperienze potenzialmente traumatiche e con un forte impatto emotivo, la massiccia quantità di adrenalina rilasciata dal nostro corpo, fa sì che suddette connessioni si consolidino.
La conseguenza di questi meccanismi neurochimici sta nel modo in cui il trauma viene memorizzato: non qualcosa a cui possiamo pensare con distacco, ben consapevoli che, di qualunque cosa si sia trattato, è passato ma qualcosa che continua a farci soffrire, come se stesse accadendo ora.
Talvolta può succedere che vengano attivati ricordi non accessibili alla consapevolezza; in tal caso possiamo sperimentare un intenso malessere emotivo e/o fisico che non ci appare riconducibile a nulla di specifico o, ancora, può accadere che abbiamo una reazione molto intensa di fronte ad un evento che per altri non sarebbe altrettanto attivante (ad es. un attacco di panico, picchi di ansia, una reazione disregolata di rabbia di fronte ad un figlio che disubbidisce, una intensa paura ad entrare in un ascensore o all'idea di prendere un aereo, vissuti di fallimento e inadeguatezza per aver commesso un errore, attacchi di gelosia ecc.).
In casi come questi, evidentemente, uno stimolo attuale ha riattivato una rete neurale che trattiene la memoria di un evento traumatico, inducendoci a risperimentare emozioni antiche; in breve, il nostro corpo ricorda (rivivendoli) vissuti di un tempo, senza che abbiamo la consapevolezza di star ricordando qualcosa.
Per chi lo desidera, l'argomento viene approfondito illustrato come con la tecnica dell’EMDR possiamo elaborare ricordi traumatici, lasciando il passato nel passato.
Studio di Psicoterapia TALENTI, Psicoterapia dei traumi - EMDR a Roma
Come funziona l’EMDR? E cosa accade in studio?
Scritto da Dott.ssa Valentina Sparatore – Psicologa Clinica – Psicoterapeuta - Consultazione GenitorialeL'EMDR si focalizza sul ricordo del trauma andando a “bussare” nel punto del nostro cervello in cui esso è trattenuto come informazione male immagazzinata e innesca un processo che riattiva l’elaborazione dell’informazione, ottenendo un sollievo dei sintomi, come conseguenza del lavoro mirato su ciò che ne è alla base.
In breve, il terapeuta chiede al paziente di focalizzare la propria attenzione su specifici aspetti del ricordo; in particolare, chiede di richiamare l’immagine peggiore, l’emozione ed il pensiero negativo su di sé. Nel corso di un’esperienza traumatica, infatti, sempre impariamo qualcosa di negativo su di noi: se siamo aggrediti da un cane, possiamo imparare “sono in pericolo”; se veniamo umiliati (si tratta di un trauma con la "t minuscola"), possiamo imparare “sono sbagliato”; se mamma non si presenta alla recita scolastica, possiamo pensare “non conto niente”; se abbiamo perso una persona cara, possiamo pensare “non posso sopportarlo” ecc.
La convinzione negativa rimane concretamente attiva, finché l’evento da cui si è generata non viene completamente elaborato. E’ per questa ragione che se a 3 anni siamo stati assaliti da un cane e abbiamo imparato “sono impotente”, possiamo vivere come attuale questa stessa convinzione, anche 40 anni dopo, di fronte ad un chiwawa che abbaia davanti a noi, e per questa ragione reagire con panico.
EMDR: Le 8 tappe dell’elaborazione del trauma
L'EMDR ha una struttura ben delineata, che si articola 8 fasi e permette una elaborazione accelerata dell’informazione, attraverso una doppia focalizzazione sull'esterno e sull'interno: il terapeuta chiede al paziente di seguire con gli occhi le sue dita che muovono da destra a sinistra (stimolo esterno) e, contemporaneamente, focalizzarsi sul ricordo disturbante (stimolo interno)
Fase 1: Anamnesi e pianificazione
Viene discusso il problema che ha portato la persona a chiedere aiuto ed effettuata una indagine approfondita della storia di vita per mettere a fuoco gli specifici eventi del passato da cui deriva la sintomatologia.
Fase 2: Preparazione
Si prepara il paziente al lavoro, spiegando la procedura dell'EMDR; inoltre si insegna al paziente una tecnica di rilassamento chiamata posto al sicuro, che prevede anch'essa l’utilizzo dell'EMDR e che viene successivamente utilizzata per gestire le attivazioni emotive
Fase 3: Pianificazione degli interventi
Si pianifica l’ordine con cui elaborare i ricordi messi precedentemente a fuoco
Fase 4: Desensibilizzazione
E’ la fase dell’elaborazione vera e propria; il terapeuta invita il paziente a richiamare l’immagine più disturbante del ricordo; ad individuare la cognizione negativa e le sensazioni corporee associate; una volta che il paziente è emotivamente in contatto con tutto ciò, comincia a seguire con gli occhi le dita del terapeuta, il quale aiuta il paziente a seguire il processo, mentre affiorano i ricordi. Dopo aver completato l’elaborazione di un ricordo (cosa che richiede più di una seduta), il disagio sperimentato, richiamando alla mente il ricordo stesso, è pari a 0 e la convinzione negativa inizialmente associata non viene più vissuta come “vera”
Fase 5: Installazione
A questo punto, una volta che il ricordo è stato desensibilizzato (non fa più effetto ripensarci), si chiede di mettere a fuoco una convinzione positiva da associare. Ad es., nel caso dell’immagine relativa al cane che può avermi aggredito tanti anni fa, la convinzione positiva potrebbe essere ora sono al sicuro.
Fase 6: Scansione corporea
Si tratta di una sorta di prova del nove: una volta che il disagio sembra essere sceso a 0, il terapeuta invita il paziente a richiamare nuovamente il ricordo alla mente, ad occhi chiusi, associandolo alla convinzione positiva (es. ora sono al sicuro) e ad eseguire una sorta di scansione corporea, notando se avverte eventuali tensioni. In caso positivo, si eseguono un po’ di movimenti oculari, fino a quando non si avvertano più tensioni corporee.
Fase 7: Chiusura
Il terapeuta informa il paziente su quello che potrebbe notare dopo la seduta e lo invita ad appuntare eventuali tensioni, emozioni, pensieri.
Fase 8: rivalutazione
Il paziente rievoca l’evento elaborato nella seduta precedente e valuta con il terapeuta se sono stati mantenuti i benefici; dopodiché si prosegue con il ricordo successivo.
Come posso guarire dopo un Trauma?
Scritto da Dott.ssa Valentina Sparatore – Psicologa Clinica – Psicoterapeuta - Consultazione GenitorialeI ricordi traumatici ed i ricordi “normali” vengono immagazzinati in modo diverso nel cervello. I ricordi traumatici, a differenza di quelli piacevoli o non disturbanti, vengono immagazzinati (con le emozioni e le sensazioni ad esso associati) in un luogo del cervello chiamato amigdala, che ha la caratteristica di non avere il senso del tempo.
Tali ricordi, che rimangono come “congelati”, hanno la facoltà di riattivarsi in circostanze particolari che, per qualche verso, somigliano alla situazione traumatica, facendo sì che la persona risperimenti le stesse emozioni e sensazioni di allora. Proviamo a fare un esempio: se, all'età di 3 anni, sono stata aggredita da un cane, con molta probabilità ho sperimentato una intensa paura, il cuore ha cominciato a battere all'impazzata e mi sono sentita impotente e sopraffatta.
Questo ricordo “traumatico” potrebbe essere rimasto “congelato” e riattivarsi in tutta la sua intensità anche 40 anni dopo, di fronte ad innocuo chiwawa, rendendomi di fatto incapace di fare una valutazione adulta e rendermi conto anche “di pancia” che sono perfettamente al sicuro. La riattivazione del ricordo traumatico mi farebbe comunque sentire in pericolo, molto spaventata e impotente anche di fronte ad un piccolo quadrupede del peso di 3 kg.
I vari sintomi psicologici per cui le persone chiedono aiuto (come attacchi di panico, fobie, ansia, depressione, senso di inadeguatezza – solo per nominarne alcuni) sono proprio legati al riaffiorare della intensa emotività legata a ricordi traumatici inaccessibili alla consapevolezza. In breve, la persona rivive le stesse emozioni e sensazioni di allora senza avere la consapevolezza che il suo corpo sta ricordando qualcosa; ciò di cui la persona si accorge è solo di “star male”, in assenza di un apparente motivo.
Cosa succede dopo un evento traumatico “T”?
Subito dopo aver vissuto un evento traumatico “T”, l’organismo va incontro ad una serie di reazioni dette “di stress” che, nella maggior parte dei casi, si risolvono spontaneamente dopo qualche tempo. Di cosa abbiamo bisogno per superare una esperienza traumatica?
- Avere una persona di fiducia con cui parlare dell’accaduto e con cui condividere i propri sentimenti
- Ritornare al più presto alla routine quotidiana (scuola, lavoro ecc.)
- Tenere presente che le emozioni e le reazioni intense sono normali e che non durano per sempre
- Concedersi tutto il tempo necessario per recuperare le proprie forzeChe succede se il disagio non si risolve spontaneamente?
Di seguito, alcune delle reazioni che, tipicamente, possiamo aspettarci dopo un Trauma “T”:
- Pensieri intrusivi: Arrivano involontariamente pensieri, immagini, frammenti di ricordi, soprattutto nei momenti di rilassamento
- Problemi di sonno: Si manifestano attraverso difficoltà di addormentamento, frequenti risvegli, incubi, sogni ricorrenti.
- Difficoltà di concentrazione: poca concentrazione in attività quali la lettura, lo studio, il lavoro ecc.
- Reazioni fisiche: disturbi allo stomaco, stanchezza, nausea
- Colpa: c’è la tendenza colpevolizzarsi per non aver fatto abbastanza. E’ comune ripetersi: “se solo avessi..”
- Irascibilità: Paura del futuro, impazienza o irascibilità verso gli altri. Diventa indifferente ciò che prima era importante
Guarire dal trauma: la tecnica dell'EMDR per promuovere l'elaborazione di quanto accaduto
L'EMDR è una efficace tecnica psicoterapeutica che può portare un rapido e duraturo sollievo alla maggior parte dei pazienti che soffrono di ansia, panico, depressione, ricordi inquietanti e molti altri problemi emotivi (o esistenziali, come il lutto) che, di fatto, non sono altro che ripercussioni emotive di traumi con la t minuscola o Traumi con la T maiuscola accaduti in un tempo recente o anche lontano. Ma come funziona l'EMDR?
Cos'è un Trauma?
Scritto da Dott.ssa Valentina Sparatore – Psicologa Clinica – Psicoterapeuta - Consultazione GenitorialeA molti di noi sarà capitato di descrivere come traumatica una brutta esperienza e di risentire, nel raccontarla, tutto l’impatto emotivo di allora ma... cos'è un trauma? Partiamo dall'inizio.
Le parole Trauma e Psiche derivano dal greco e significano ferita e anima; possiamo dunque pensare al trauma psicologico come ad una "ferita dell'anima". Le “ferite dell’anima” non sono, in realtà, troppo diverse da quelle fisiche; nella maggior parte dei casi, esse si rimarginano da sole in poco tempo; talvolta, tuttavia, si deve ricorrere all’intervento esterno. Allo stesso modo, dopo una ferita emotiva importante, il naturale processo di guarigione spontanea può "incepparsi"; in tal caso, poter contare su un aiuto specialistico, può davvero fare la differenza.
Terapia EMDR - I Traumi non sono tutti uguali
Per districarsi nell'universo del trauma psicologico, è utile operare una distinzione in due macro-aree chiamate, per facilità di comprensione Traumi con la T maiuscola e traumi con la t minuscola.
I Traumi con la T maiuscola sono eventi di grande portata che portano alla morte o minacciano l'integrità fisica propria o delle persone care: omicidi, aggressioni, gravi incidenti stradali, lutti improvvisi o inaspettati, terremoti, diagnosi infauste, aborti, attentati terroristici ne sono chiari esempi. Accanto a tali eventi di grande portata, esistono esperienze negative soggettivamente disturbanti, che non causano nella persona la percezione di un pericolo di vita e che tuttavia sono in grado di indurre profondo malessere: fallimenti, umiliazioni, separazioni, perdita del lavoro, tradimenti sono tutti esempi di traumi con la t minuscola, in grado di provocare un disagio intenso, che spesso la persona non riesce a spiegarsi.
Non solo; quando il trauma con la t minuscola caratterizza la relazione con una figura di riferimento, nell'età dello sviluppo (ad es. la separazione da un genitore, l’esperienza di subire umiliazioni da parte di un genitore autoritario, l’essere criticato o continuamente confrontato con un fratello più bravo, l’essere gratificato esclusivamente in caso di prestazioni oltre un certo livello, l’assistere alle liti tra i genitori), questo è in grado di influenzare profondamente, in modo negativo, il livello di autostima della persona. Altre fonti di traumi con la t minuscola, sempre nell'infanzia - adolescenza, sono rappresentate dalla relazione con i pari e/o con gli insegnanti: l’essere rifiutati dal gruppo, il subire bullismo, l’essere derisi, l’essere umiliati dagli insegnanti sono tutte “ferite dell’anima” in grado di generare convinzioni negative pervasive del tipo “sono inadeguato."
La maggior parte dei casi di bassa autostima, ansia, depressione, paure inspiegabili hanno proprio a che fare con questa categoria di traumi.
Se per i Traumi con T maiuscola le persone non hanno difficoltà a risalire all'evento responsabile del disagio emotivo, le persone che hanno vissuto traumi di minore entità possono avere meno consapevolezza di ciò che contribuisce al loro malessere attuale.
Eppure, ogni adulto è un ex bambino che, nella sua intimità, porta ferite talvolta rimarginate, talvolta sanguinanti che possono condizionare la vita emotiva, sociale, scolastica o lavorativa attuale, senza che la persona abbia la consapevolezza delle reali radici delle proprie difficoltà... Ma come posso guarire dopo un trauma?
SOS: mio figlio piange sempre!
Scritto da Dott.ssa Valentina Sparatore – Psicologa Clinica – Psicoterapeuta - Consultazione GenitorialePerché i bambini continuano a piangere anche dopo aver imparato a parlare?
Quando un bimbo piccolo piange, tendiamo ad accettare di buon grado il suo pianto, perché sappiamo che sta esprimendo un bisogno nell'unico modo che conosce. Col tempo, il bambino cresce ed impara ad usare le parole; eppure, anche quando il pianto usato come mezzo per comunicare bisogni viene rimpiazzato dal linguaggio verbale, esso non scompare, lasciando spesso sconcertati noi genitori poiché, talvolta, nulla di ciò facciamo sembra in grado di farlo cessare.
Effettivamente, il pianto è il mezzo attraverso il quale i bambini molto piccoli comunicano i loro bisogni ma vi è un secondo motivo meno noto, per cui piangono durante l’infanzia.
Tutti i bambini accumulano sensazioni dolorose legate a piccoli traumi e ad inevitabili frustrazioni quotidiane o alla attitudine ad interpretare i messaggi che riceve con la sua ipersensibilità fortemente soggettiva.
Quali sono le fonti di stress che inducono in un bambino il bisogno di piangere?
Sono molteplici, nella vita di un bambino, le fonti di stress che creano la necessità di piangere. Come genitori può rassicurarci sapere che possiamo fare qualcosa di buono anche quando non riusciamo subito a comprendere perché nostro figlio sta piangendo; ciò che dobbiamo fare è accettarne il pianto: versare lacrime è salutare, che se ne sappia il motivo o no.
Talvolta, siamo noi adulti a causar loro inconsapevolmente lo stress, agendo sotto la spinta di rabbia, insicurezza o ansia: sgridare, sminuire, giudicare, criticare, fare confronti tra fratelli, etichettare rappresentano forme di aggressione verbale dolorosa, in grado di intaccare l'autostima di un bambino, quando riflettano una modalità di interazione abituale.
Talvolta, sempre in buona fede, corriamo il rischio di chiedere troppo a nostro figlio. I bambini hanno bisogno di poter contare sulla presenza di un adulto disponibile che si assuma la responsabilità della cura e fornisca compagnia e sostegno emotivo: chiedere ad un bambino di badare a se stesso per ore dopo la scuola o, peggio, affidargli la cura di un fratello più piccolo rappresenta sicuramente una fonte di stress, anche se egli dà l’idea di cavarsela.
Ugualmente, l’essere esposto a litigi o l’esperienza della separazione dei genitori possono causare paura, confusione, senso di colpa. Non solo; anche in assenza di eventi traumatici o di inconsapevoli mancanze da parte nostra, un bambino può sperimentare un intenso stress per la nascita di un fratellino o per il semplice fatto che le cose non sempre vanno come vorrebbe. Anche le interazioni con i coetanei sono frequentemente causa di frustrazione, per la naturale propensione a cogliere esclusivamente il personale punto di vista.
Quali sono i benefici del pianto?
Quello che, per cultura, ci è stato insegnato, è che “pianto” è sinonimo di “dolore” e che di conseguenza, la cosa più sensata che dobbiamo fare come genitori è sbrigarci a farlo cessare; solo allora, il cucciolo starà meglio.
In realtà, alcune ricerche sembrano mostrare come il pianto in sé sia un modo molto efficace per ridurre la tensione, facendo abbassare la pressione sanguigna ed il ritmo cardiaco. W. Frey, un biochimico americano, ha analizzato la composizione chimica delle lacrime umane, scoprendo che quelle versate per un dispiacere o una forte emozione sono chimicamente diverse dalle lacrime indotte da un agente irritante come la cipolla. Ulteriori analisi hanno rivelato solo nelle lacrime indotte emotivamente la presenza di ormoni dello stress, prodotti nel corpo per far fronte a qualche evento percepito come minaccioso. Il pianto, dunque, è uno stato di eccitazione fisiologica attraverso il quale l’organismo, eliminando gli ormoni dello stress dal nostro corpo, lo riporta ad uno stato di equilibrio, facendo abbassare la pressione sanguigna ed il ritmo cardiaco. Dare a nostro figlio il permesso di piangere tutte le volte che ne sente il bisogno può proteggerlo dal rischio di patologie future legate proprio allo stress: alcune ricerche hanno mostrato che le persone con livelli alti di cortisolo nel sangue hanno una maggiore incidenza di ipertensione e arteriosclerosi. Non solo; un grave effetto secondario di alti livelli di cortisolo risulta essere la soppressione del sistema immunitario ed una conseguente minore resistenza a malattie ed infezioni. Considerevole anche l’impatto su una parte del cervello che svolge una funzione importante nell'apprendimento e nella memoria.
Perché i bambini hanno intense crisi di pianto per cose banali?
Una volta che il bambino abbia imparato ad utilizzare il linguaggio verbale per esprimersi, gli episodi di pianto vanno ascritti alla funzione liberatoria, più che comunicativa. A noi tutti genitori è, tuttavia, capitato di assistere ad una crisi di pianto pensando che fosse assolutamente spropositata rispetto all'accaduto: un lecca-lecca alla fragola anziché all'arancia, un biscotto rotto o un’altra banalità simile. La ragione per cui i bambini piangono per tali questioni di poco conto è che hanno accumulato tensione e si servono di pretesti futili al fine di allentare lo stress. Dunque, di fronte ad una reazione intensa di pianto per un nonnulla o quando le richieste di nostro figlio sono del tutto irragionevoli, ricordiamoci di prendere in considerazione la possibilità che abbia semplicemente bisogno di liberarsi del sovraccarico emotivo.
Cosa debbo fare quando mio figlio piange?
E’ ovvio che se nostro figlio piange perché un cane di amici gli sta abbaiando contro o perché ha appena assistito all'ennesima lite in casa, sarà poco appropriato suggerirgli di continuare a piangere perché gli fa bene! Se ci rendiamo conto che è turbato per una situazione contingente o perché è esposto ripetutamente a qualcosa che gli provoca stress, la prima cosa da fare è rimuovere la causa del disagio. In un caso come questo, non sarebbe sufficiente aiutare il piccolo ad esprimere le emozioni; è la situazione nell'insieme a dover essere risolta. Il passo successivo consiste nell'ascoltare il bambino ed accettare che pianga. Sembra facile ma, in realtà, è la prima sfida per noi genitori che, pur di vedere sempre sorridenti i nostri pargoli, spesso cerchiamo di distoglierli da ciò che li turba, dimenticando l'importanza di far sperimentare loro l'intera gamma di emozioni. Una volta finite tutte le lacrime versate, magari, tra le nostre braccia, possiamo dare un nome all'emozione di nostro figlio, pronunciando parole del tipo "Forse sei triste perché si è rotto il tuo giocattolo nuovo." Quando, invece, non siamo certi della causa del disagio, meglio evitare di collegarlo a qualche fatto accaduto, e limitarsi a dire "Sei molto triste...e hai bisogno di piangere"; in tal modo, non si sentirà frainteso. Ricordiamoci che è molto importante prima lasciarli piangere e solo dopo, eventualmente, parlare con loro, nominando ciò che stanno provando.
Non riesco a tollerare il pianto del mio bambino
Se è proprio difficile tollerare il pianto del nostro bimbo, è possibile usare temporaneamente la strategia della distrazione, proponendo di fare un gioco, una passeggiata o qualcosa che solitamente gradisce ma bisogna ricordare che stiamo solo rimandando, perché il suo bisogno di piangere non si sopprime attraverso la distrazione ma è solo rimandato ad un momento in cui ci sentiamo più disposti ad accoglierlo. Se, tuttavia, questo momento non arriva mai, ci sarà molto utile riflettere su alcuni aspetti della nostra storia, ponendo a noi stessi le seguenti domande:
Cosa facevano i miei genitori quando piangevo o facevo capricci? Venivo punito, calmato, distratto, preso in giro? Come mi sentivo? Ricorda un episodio in particolare. Come mi sarebbe piaciuto che reagissero? Mio figlio mi ricorda qualcuno quando piange? Un fratello più piccolo. un genitore in difficoltà, me da bambino? Ti sei mai sentito meglio dopo un bel pianto? Ricorda un episodio. Hai mai ricevuto ascolto solidale mentre piangevi? Come ti sei sentito?
La risposta a queste domande, può aiutarci a comprendere dove abbiamo imparato alcuni comportamenti di cura dell'altro, in modo automatico e senza renderci conto che stavamo imparando qualcosa. Il modo in cui reagiamo al pianto del nostro bimbo può essere frutto di un apprendimento avvenuto nella relazione con le persone che si sono prese cura di noi quando eravamo piccoli. Il fatto di diventarne consapevoli è una gran cosa perché ci dà una nuova possibilità: quella di operare una scelta laddove non sapevamo che fosse possibile scegliere!
Dare un senso alla nostra vita passata ci aiuta e vivere il presente
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaLa nostra vita come figli è in parte un capitolo della storia dei nostri genitori. Ogni generazione è influenza da quella precedente e influenza quella successiva. Anche se i nostri genitori possono aver fatto del loro meglio, possiamo aver avuto esperienze precoci che non vorremmo trasmettere ai nostri figli. Eppure da adulti ci ritroviamo a comportarci come faceva mamma con noi o a parlare a nostro figlio o al nostro partner come ci parlava papà… ma anche se molto spesso ci ritroviamo “attaccati” comportamenti che abbiamo a nostra volta ricevuto da bambini, non siamo destinati a ripetere obbligatoriamente i pattern dei nostri genitori o del nostro passato.
Se riusciamo a comprendere il senso della storia della nostra vita possiamo costruire esperienze positive che ci consentono di andare oltre i limiti posti dal nostro passato e di creare un modo diverso di vivere per noi.
È importante dare un senso alla nostra infanzia?
Riflettere sulle esperienze della nostra infanzia può aiutarci a dare un senso alla storia della nostra vita… ma gli eventi della nostra infanzia non possono essere cambiati! Vero. Ma allora perché è utile una simile riflessione? Una comprensione profonda di noi stessi può cambiare ciò che siamo.
Dare un significato alla nostra storia ci dà la possibilità di scegliere i nostri comportamenti e di aprire la nostra mente ad uno spettro più ampio di esperienze, di avere un modo di comunicare con il nostro partner e con i nostri futuri figli che promuova sicurezza nel loro attaccamento.
L’attaccamento in età adulta
Innanzitutto che cos’è l’attaccamento? È un sistema dinamico di comportamenti che sostengono e creano un legame specifico tra due persone, in cui si percepisce il bisogno di stare vicino emotivamente e fisicamente all’altro di riferimento.
Ognuno di noi presenta un atteggiamento generale rispetto all’attaccamento, sviluppato nell’infanzia verso i nostri genitori, che influenza e si ripropone nelle nostre relazioni da adulti. Le modalità e i contenuti con cui raccontiamo le storie della nostra vita infantile lasciano trasparire la tipologia del nostro attaccamento.
Di seguito riporto le correlazioni emerse dalle ricerche della psicologa Main (2003): in base al tipo di attaccamento che abbiamo sviluppato da bambini è possibile prevedere che attaccamento avremo da adulti nei confronti del nostro partner e dei nostri figli.
Bambino | Adulto | |
Sicuro | Libero e autonomo | |
Ambivalente | Preoccupato o invischiato | |
Disorganizzato | Non risolto / disorganizzato |
- Attaccamento adulto sicuro
Le persone che riescono a parlare delle esperienze vissute nella loro storia e nel loro attaccamento, mostrano delle narrazioni caratterizzate da flessibilità, oggettività e capacità di valutare l’importanza delle relazioni interpersonali. Le narrazioni risultano coerenti e riescono ad integrare nei loro discorsi il passato, il presente e ciò che li aspetta dal futuro.
- Attaccamento adulto distanziante
Questo attaccamento si mostra nelle persone che hanno avuto esperienze infantili dominate da una mancanza di disponibilità emozionale e da comportamenti di rifiuto da parte dei genitori. Può capitare che una volta diventati genitori, questi adulti si mostrano scarsamente sensibili rispetto ai segnali che inviano i figli e il loro mondo interiore sembra avere come componente fondamentale l’indipendenza. Le esperienze infantili raccontano di un “isolamento emotivo”, di un ambiente famigliare freddo e molto spesso sostengono di non ricordare le esperienze vissute da bambini. Nella loro vita sembra mancare un senso al ruolo che gli altri o il passato possono aver esercitato sul loro sviluppo, tenderanno quindi a svalutare la rilevanza delle relazioni interpersonali nella loro vita.
- Attaccamento adulto preoccupato
È frequente nelle persone che nei primi anni di vita hanno avuto esperienze di genitori che si prendevano cura di loro in modo incostante e imprevedibile. Spesso questi adulti diventano genitori pieni di dubbi e paura per quanto riguarda la possibilità di fare affidamento sugli altri e presentano un atteggiamento di base preoccupato caratterizzato da ansia, incertezza e ambivalenza verso le persone significative della loro vita presente. Le loro narrazioni sono in genere ricche di aneddoti che rivelano come questioni del passato lasciate in sospeso continuano ad entrare prepotentemente nel presente e tali intrusioni hanno un impatto negativo sulla capacità di rispondere in maniera flessibile a ciò che sta capitando nel qui ed ora.
- Attaccamento adulto non risolto
Persone che hanno vissuto perdite o traumi rimasti irrisolti possono entrare improvvisamente in stati che risultano allarmati o disorientati. Una volta diventati genitori per esempio possono apparire distanti ed estraniati quando il loro bambino è irrequieto o manifestare segni di disagio, oppure possono arrabbiarsi e diventare minacciosi se un bambino eccitato corre cantando “troppo forte”. Ma perché succede questo? La presenza di elementi non risolti determina un’interruzione nei flussi di informazioni nella mente e riduce le capacità di raggiungere un equilibrio emozionale e quindi di mantenere una relazione flessibile con gli altri. Questi processi influenzano in modo diretto le relazioni significative con gli altri nel presente.
E tu, che attaccamento pensi di aver sviluppato nella tua infanzia?
Essere consapevoli della nostra storia ci può aiutare a vivere meglio con gli altri e a diventare genitori flessibili e accoglienti. Diversi studi (Siegel - Hartzell, 2005) dimostrano che uno stato di attaccamento sicuro può essere “acquisito” in età adulta attraverso un processo di crescita associato a relazioni positive con amici, partner, insegnanti o terapeuti.
Incominciare cercando di approfondire la conoscenza che abbiamo di noi stessi e della nostra infanzia ci aiuta ad elaborare una storia coerente della nostra vita e ci permette di unire e integrare i temi del nostro passato con quelli del nostro presente, mentre ci muoviamo verso il futuro.
Nel linguaggio comune il termine “stress” assume il senso di tensione, preoccupazione, senso di malessere diffuso, ma in psicologia cos’è lo stress?
Lo stress è la risposta psico-fisica che si manifesta quando siamo sottoposti a situazioni (positive o negative) che richiedono un cambiamento.
Quali situazioni possono provocare stress?
- eventi della vita piacevoli e spiacevoli: matrimonio, nascita di un figlio, morte di una persona cara, divorzio, pensionamento…
- cause fisiche: freddo o caldo intenso, abuso di fumo e di alcool, fattori alimentari, malattie fisiche…
- fattori ambientali: ambienti rumorosi o inquinati, difficoltà economiche, lavorative…
- cataclismi: catastrofi naturali, sconvolgimenti politici o sociali
Lo stress è sempre negativo?
In realtà, lo stress non è né positivo né negativo, è una spinta all’adattamento, una forma di energia che ci aiuta a raggiungere un obiettivo. Lo stress svolge un ruolo adattivo molto importante nella nostra vita, solo se l’individuo non riesce a fronteggiare adeguatamente gli stimoli esterni insorgono condizioni di disagio.
Perché un evento diventa stressante?
Lo stress non è solo qualcosa che sta al di fuori, nell’ambiente che ci circonda, ma è anche il risultato di un processo di valutazione dell’individuo. Questa mediazione psicologica ci aiuta a capire come mai “ciò che è stressante per me, può non esserlo per te”. A fare la differenza è il peso emotivo che diamo all'evento e come giudichiamo la nostra capacità di affrontarlo.
Come ci stressiamo?
Hans Selye, il pioniere dello studio sullo stress, descrive il processo stressogeno suddividendolo in tre fasi:
- fase di allarme: sentiamo l’esubero dei doveri, ma mettiamo in moto le nostre risorse per adempierli
- fase di resistenza: stabilizziamo le nostre condizioni e ci adattiamo alle nuove richieste
- fase di esaurimento: sentiamo che le nostre risposte non sono più sufficienti, avviene il crollo delle difese, sentiamo l'incapacità ad adattarci ulteriormente ed insorgono diversi sintomi
Quali sono i sintomi dello stress?
- fisici: mal di testa, collo e spalle tese, dolore allo stomaco, tachicardia, irrequietezza, insonnia, stanchezza, perdita di appetito…
- comportamentali: digrignare i denti, attitudine alla critica, aumento dell’uso di alcolici o di fumo, mangiare compulsivamente…
- emozionali: piangere, senso di pressione, ansia, rabbia, infelicità, sentire di essere sul punto di esplodere, impotenza…
- cognitivi: distrarsi facilmente, perdita di memoria, mancanza di creatività…
Come ridurre lo stress?
I campanelli d'allarme che per molto tempo possono averci infastidito, possono diventare sintomi di una malattia e lo stress attacca il nostro corpo nei suoi punti più vulnerabili. Un livello elevato di stress può essere ridotto facendo ricorso a:
- psicoterapia: consente di stabilire un contatto consapevole con la propria esperienza interiore (pensieri, emozioni, bisogni), di imparare a riconoscere i propri segnali di stress e di potenziare le proprie risorse. Il sostegno psicologico favorisce, inoltre, l'emergere di nuovi significati personali e di nuove possibilità di scelta che possono portare nella direzione di un maggior benessere
- tecniche di rilassamento: mirano a controllare e a gestire le risposte fisiologiche legate allo stress; imparando a controllare queste reazioni, si può raggiungere uno stato di rilassamento piuttosto che di tensione
- tecniche di assertività: mirano a sviluppare la capacità di esprimere in modo costruttivo le proprie opinioni e i propri sentimenti (positivi e negativi), quindi di richiedere cambiamenti nei comportamenti di coloro con cui si interagisce e di imparare a “dire di no” a richieste irragionevoli, riconoscendo i propri limiti e gestendo efficacemente la pressione esterna.
Altro...
A chi non è mai capitato di arrabbiarsi? Spesso la rabbia viene considerata un’emozione negativa da reprimere, inopportuna, irragionevole e associata all’aggressività. La realtà è che la sua carica distruttiva dipende dall’uso che se ne fa, o meglio, che non se ne fa.
La rabbia diventa dannosa quando non viene riconosciuta, quando si tenta di negarla. La rabbia repressa infatti può alimentare sentimenti depressivi e di inferiorità e il nostro corpo può darci segnali di sofferenza attraverso manifestazioni psicosomatiche come psoriasi, gastriti, mal di testa.
A cosa serve la rabbia?
La rabbia è un importante “segnale di allarme”, ci comunica che qualcosa non va e ci predispone ad agire in senso protettivo per noi stessi. La rabbia può segnalarci che i nostri diritti sono stati violati, che i nostri bisogni non sono appagati, ci segnala che ci sentiamo insoddisfatti o frustrati. Ascoltare la propria rabbia ci aiuta quindi ad essere autentici con noi stessi e con gli altri.
Come esprimere la rabbia in modo costruttivo?
Non tutte le modalità sono adeguate. Riabilitare la rabbia non significa certo urlare o essere aggressivi. Dietro la rabbia si cela sempre un dolore o una insoddisfazione e agire in modo aggressivo certamente è un modo per disperdere la propria energia ed evitare di sentire il dolore sottostante. Affinché i nostri sentimenti siano ascoltati è necessario, sempre e in ogni occasione, esprimere con calma e a parole il proprio stato d'animo.
Prenditi una pausa e parla con un amico. Spesso è indispensabile allontanarsi dalla situazione che ha innescato la rabbia e rimandare la comunicazione: “in questo momento sono molto arrabbiato e non sono in grado di parlare costruttivamente con te, ne parliamo quando sarò più calmo”. Inoltre, scaricare il primo moto di collera con un amico può aiutarci ad adottare successivamente un approccio disteso nella conversazione e acquisire eventualmente, grazie al confronto, un nuovo punto di vista.
Chiarisciti le idee. È importante avere chiaro ciò che si prova e cosa si ha intenzione di comunicare all’altro, ponendosi degli interrogativi, ad esempio:
- “Cosa mi ha fatto arrabbiare?”
- “Quanta responsabilità ho rispetto a quanto è accaduto?”
- “Come può essersi sentita l’altra persona?”
Comunica le tue opinioni. È utile adottare uno stile assertivo di comunicazione evitando accuse e ingiurie, in quanto l’obiettivo è quello di ristabilire un equilibrio e non di prevaricare l’altro. Lo psicoterapeuta T. Gordon propone il sistema dei messaggi-io basato sulle seguenti linee guida:
- definire con precisione cosa ci ha disturbato: “ieri quando eravamo a cena con gli amici, hai detto che… con un tono… e io mi sono sentito molto arrabbiato”
- condividere le proprie emozioni: “quando capita che… io mi sento…”
- esprimere i propri bisogni attuali e le proprie motivazioni: “vorrei che... ho bisogno di… perché per me è molto importante…”
- comunicare le proprie aspettative: “mi piacerebbe se tu… e io cercherò di…”
Vivi profondamente la tua rabbia. Se siamo in un luogo sicuro, da soli, con un amico o con un terapeuta, permettiamoci di parlare ad alta voce, di urlare, di scalciare e colpire cuscini. In tal modo si affievolisce l'istinto di compiere un atto aggressivo e saremo più capaci di affrontare efficacemente le situazioni che si presentano. Un altro modo per esprimere la propria collera è ricorrere all’esercizio fisico e ad esercizi di rilassamento.
Chiedi aiuto se necessario. Imparare a gestire la rabbia è una sfida per chiunque, ci sono dei momenti della propria vita in cui la rabbia diventa incontenibile ed in questi casi è importante considerare la possibilità di consultare uno psicoterapeuta.
Come gestire la rabbia quando l'altro è arrabbiato?
Uno degli strumenti più validi si chiama active listening, ossia ascolto attivo, che può essere sintetizzato in tre momenti:
- Primo: porre domande chiarificatrici all’interlocutore, domande che dovrebbero essere sempre aperte, generiche e rivolte ad indagare le motivazioni: “cosa ti ha fatto arrabbiare?”, “come mai per te è così importante…?”. Vanno sicuramente evitate affermazioni del tipo: “non è il caso di prendersela per così poco!”, a meno che non vogliate vedere la rabbia trasformarsi in aggressione
- Secondo: riassumere le affermazioni dell’interlocutore in modo da costruire un dialogo con l’altro in relazione all’episodio: “da ciò che racconti, mi sembra di capire che…
- Terzo: cogliere e rimandare le emozioni che l’altro ci esprime, ossia avere empatia nell’ascolto e nella comunicazione: “capisco come tu ti possa sentire (frustrato) quando…”
La rabbia è semplicemente un’emozione come la tristezza, la gioia, la paura e tutte le emozioni non sono altro che impulsi ad agire, piani di azione di cui ci ha dotati l’evoluzione per gestire al meglio la nostra vita.
È vero che mangiare cioccolata genera benessere?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaIl cioccolato è uno degli alimenti più consumati in tutto il mondo e viene definito il “cibo del buon umore”, ma vero che mangiare cioccolata genera benessere? I risultati degli studi sono controversi.
Mangiare cioccolata stimola la produzione di serotonina e di endorfine capaci di produrre un effetto di innalzamento del tono dell’umore. Il cacao contiene monoammine, tra cui la feniletilammina che è capace di produrre le stesse sensazioni che sperimenta una persona innamorata. Il consumo di cioccolato può offrire dunque sensazioni di rilassamento e di felicità (Università di Helsinki, in Finlandia).
Il cacao è anche uno stimolante naturale, può provocare un incremento dell’attenzione, dello stato di allerta e del rendimento mentale. Gli studenti che bevono una tazza di cioccolato risultano più efficienti intellettualmente di quelli che non lo bevono (Università di Wheeling in West Virginia). Il cacao, inoltre, ha effetti antiossidanti, di prevenzione delle malattie cardiovascolari e di alcune forme di cancro (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione).
Una cosa è certa: consumare cioccolata procura piacere e si associa all’attivazione di molte funzioni psicologiche. Il piacere della cioccolata può quindi generare benessere e predisporre a comportamenti sociali amorevoli (Lorenzini, Scarinci, 2013).
Gli studi condotti fino ad oggi indicano che l’assunzione quotidiana di 50 grammi di cioccolato fondente per 3 giorni riduce i sintomi dello stress, dell’ansia e della depressione. In generale, il consiglio più diffuso sembra essere quello di non farsene mancare circa 28 grammi al giorno.
Tuttavia, altre ricerche attestano risultati esattamente contrari: il cioccolato potrebbe essere una concausa importante di infelicità, sbalzi d’umore e depressione. Il consumo di cioccolato può dare dipendenza, in quanto può essere consumato per appagare il proprio vuoto affettivo, per noia, per appagare un desiderio in modo rapido e compulsivo; può condurre all’obesità, alla perdita di controllo sui propri impulsi e addirittura alla perdita di autostima (Associazione Dietetica e della Nutrizione Britannica).
Infine, una ricerca australiana (pubblicata su Journal of Affective Disorders) esclude l’effetto benefico della cioccolata sull’umore: “La cioccolata può fornire un piacere emotivo, soddisfacendo un desiderio, ma quando viene consumata per avere un conforto o per vincere il malumore, è più probabile che sia associata a un prolungamento dello stato d’animo negativo, piuttosto che alla sua fine”.
Che conclusioni trarne?
Il cioccolato, come tanti altri alimenti o sostanze, ci mostra i suoi effetti positivi ma anche i suoi lati negativi: può dare piacere, calore, appagare, ma può anche indurre l'aumento di peso, rendere dipendenti e influire negativamente. Certamente è importante distinguere tra il cacao puro e il cioccolato ricco di grassi, zuccheri e calorie.
Ippocrate sosteneva che “è la dose che fa il veleno”. Consumare cioccolato dovrebbe essere un momento di piacere e non un modo per tentare di controllare o sfogare le proprie emozioni. Evitate quindi di assumere cioccolata quando vi sentite in ansia, tristi o stressati e cercate invece di rimanere in ascolto delle vostre emozioni e dei vostri bisogni e di mangiare del buon cioccolato fondente con moderazione.
Genitori quali sono i segnali di disagio degli adolescenti ai quali prestare attenzione?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaL’adolescenza è la fase della vita durante la quale l’individuo conquista le abilità e le competenze necessarie ad assumersi le responsabilità relative al futuro stato di adulto. Questo periodo di transizione dallo stato di bambino a quello di giovane adulto prevede una costante evoluzione e continue trasformazioni che spesso, dall’esterno, vengono scambiate per volubilità, instabilità, squilibrio e il genitore può trovarsi a percepire il proprio figlio come una persona improvvisamente diversa e “nuova”. Ma quando i rapidi e consistenti cambiamenti causano veramente una fase di disequilibrio che si può protrarre nel tempo? Quali sono i segnali di disagio più frequenti ai quali dover fare attenzione? Le manifestazioni del disagio del ragazzo o della ragazza possono essere rilevati attraverso una serie di segnali dei quali di seguito elenco alcuni dei più frequenti. Ci tengo a sottolineare che non si parla di diagnosi ma di segnali di stati di sofferenza, il cui senso e la cui rilevanza o meno vanno valutati caso per caso:
- rabbia e aggressività (mi arrabbio con estrema facilità, perdo il controllo, odio tutti)
- isolamento rispetto al gruppo dei coetanei (non ho voglia di vedere nessuno, non me la sento di uscire di casa)
- disagio nelle relazioni con i coetanei (non riesco a parlare con gli altri, gli altri, nessuno mi ascolta, non riesco a farmi degli amici)
- difficoltà ad affermare la propria personalità, crisi di identità (chi sono? non mi riconosco più?)
- problemi scolastici (non mi importa niente della scuola, non riesco a dimostrare che sono capace, non sono intelligente)
- disfunzioni nell'alimentazione (non ho fame, il cibo mi ripugna, oppure ho sempre fame, ci sono momenti in cui non riesco a smettere di mangiare, vomito quello che ho mangiato)
- disagio rispetto al proprio corpo (non mi piaccio, sono cambiato e non mi piace come sono adesso)
- dubbi sulla propria identità sessuale (non so se mi piacciono le ragazze o i ragazzi, ho il timore di essere gay, ho il timore di essere lesbica)
- conflittualità con i genitori (non riescono a capirmi, mi trattano come se fossi un bambino, invadono i miei spazi, non li sopporto più)
- angosce e paure (ho paura di stare da solo, in certe situazioni mi blocco, ho paura di quello che gli altri pensano di me)
- ossessioni (ho dei pensieri che mi disturbano e che non riesco a controllare, mi lavo le mani in continuazione, accendo e spengo la luce senza motivo...)
- autolesionismo manifestato attraverso pensieri o veri e propri comportamenti (ho pensato di suicidarmi, penso di farmi del male, mi taglio, faccio cose pericolose, bevo)
- somatizzazioni cioè malessere fisico per cui è stata verificata l'assenza di una causa organica (mi viene spesso mal di testa, mi va a fuoco lo stomaco, ho la pelle sempre irritata)
- sofferenze sentimentali (nessuno mi vuole, chi potrebbe amarmi così come sono)
- difficoltà a riconoscere con chiarezza i propri obiettivi di vita (non so in che direzione andare, non so cosa voglio).
Ognuno di noi guarda la vita e il futuro in un modo diverso. Alcuni di noi vivono con preoccupazione ed ansia, focalizzano la propria attenzione sulle difficoltà incontrate o da affrontare, piuttosto che sulle gioie e i successi ottenuti; queste persone sono i cosiddetti pessimisti. Altri invece tendono a valutare la vita con serenità ed entusiasmo, considerano le difficoltà come opportunità di crescita, più che come insidie e ostacoli insormontabili; questi ultimi sono gli ottimisti.
In generale possiamo affermare che:
- l’ottimismo è l’attitudine a giudicare favorevolmente lo stato e il divenire della realtà e della vita
- il pessimismo è l’atteggiamento costante e sistematico di sfiducia nei confronti della realtà e della vita
Gli effetti negativi del pessimismo e delle emozioni correlate (rabbia, ansia, depressione…) sulla nostra salute sono facilmente riconoscibili, ma se è vero che uno stato cronico di sofferenza psicologica è tossico per il nostro organismo e la nostra mente, è anche vero che le emozioni opposte possono avere un effetto tonificante. Con questo non voglio affermare che l’ottimismo e le emozioni positive (la gioia, l’entusiasmo, la curiosità…) o una semplice risata cambierà il decorso della nostra giornata.
Diversi studi hanno messo in luce che i pessimisti più facilmente si arrendono di fronte alle difficoltà, hanno meno successo nel lavoro, cadono più spesso in depressione e si ammalano più facilmente. Al contrario le persone ottimiste rendono meglio nello studio, nel lavoro e nello sport. Inoltre sembra che gli ottimisti siano più abili nei test attitudinali e tendano ad essere scelti più spesso dei pessimisti quando concorrono a cariche dirigenziali. Infine si è rilevato che le persone ottimiste godano di uno stato di salute buono: infatti sembra che il loro sistema immunitario sia più efficiente e risentono meno dei consueti malanni fisici.
In uno studio (Goleman, 2011) venne valutato il livello di ottimismo o pessimismo di 122 uomini sopravvissuti ad un attacco di cuore. Otto anni dopo dei 25 uomini più pessimisti, 21 erano morti; dei 25 più ottimisti ne erano morti solo 6. La loro predisposizione mentale fu rivelatrice della loro possibilità di sopravvivenza più di qualunque altro fattore di rischio medico.
Ma perché alcune persone sono ottimiste e altre sono pessimiste? I pessimisti possono diventare ottimisti?
Per rispondere a queste domande farò riferimento agli studi di Martin Seligman (1996) che è un autorevole studioso del settore.
Seligman sostiene che alla base dell’ottimismo e del pessimismo ci sono due elementi:
- la sensazione di poter esercitare o meno un controllo sugli eventi
- il modo con cui ci spieghiamo ciò che ci accade
Le persone che si vivono come impotenti saranno, con maggiore probabilità, più pessimiste delle persone che, al contrario, credono di poter modificare circostanze ed eventi così da raggiungere obiettivi e successi desiderati.
Tuttavia la percezione di sentirsi impotenti o meno, cioè capaci di controllare ciò che ci accade o meno, si costruisce sulla base di come ciascuno si spiega gli eventi negativi o positivi con cui ha a che fare nella vita.
Seligman ritiene che ciascuna persona abbia un proprio stile esplicativo, cioè una propria modalità di interpretare le cause degli eventi: tale modalità si origina dalla visione che ciascuno ha del proprio posto nel mondo, dal percepirsi come persona degna di valore e meritevole oppure indegna e immeritevole. Nel primo caso avremo facilmente a che fare con una persona ottimista, nel secondo con una pessimista.
Nello specifico lo stile esplicativo è caratterizzato da tre dimensioni cruciali:
- la permanenza: riguarda il tempo e il modo in cui ci spieghiamo gli eventi, le persone pessimiste credono che le cause dei propri successi o fallimenti perdurano nel tempo e non sono modificabili
- la pervasività: riguarda invece lo spazio, alcune persone riescono a mettere da parte i loro problemi e ad andare avanti anche quando vivono un dolore in un campo importante della loro vita, altre persone invece tendono a mandare tutto in rovina
- la personalizzazione: riguarda l’attribuzione causale degli eventi, ossia siamo noi stessi o i fattori esterni che causano gli eventi? Gli ottimisti tendono ad interpretare gli insuccessi come occasionali e circoscritti ed interpretano i successi come conseguenza delle loro qualità, i pessimisti fanno esattamente l'opposto
Possiamo quindi affermare che ottimisti o pessimisti non si nasce, ma lo si diventa. Secondo Seligman, l'ottimismo può essere appreso e, con sollievo di tutti i pessimisti, anch'essi possono sperare di diventare un giorno ottimisti, ma solo dopo aver imparato una serie di abilità, come il modo soggettivo di interpretare gli eventi, l’ottimismo quindi si può apprendere con l’esercizio e la flessibilità di pensiero.
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L’ottimismo è l’attitudine a giudicare favorevolmente lo stato e il divenire della realtà e della vita. Il pessimismo è l’atteggiamento costante e sistematico di sfiducia nei confronti della realtà e della vita.