Articoli di Psicologia e Psicoterapia
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Non esiste una risposta oggettiva a questa domanda.
Rivolgersi ad uno psicoterapeuta significa dare ascolto ad un’esigenza importante ed intima, che comporta due passi fondamentali: il primo passo è prendere coscienza del proprio stato di malessere e il secondo passo consiste nell'assecondare il desiderio di stare meglio e occuparsi di sé.
Sono molteplici le situazioni che possono motivare la richiesta di una consulenza psicologica. Spesso le difficoltà della vita stessa, o situazioni di disagio derivate da eventi specifici (lutti, separazioni, cambiamenti improvvisi…) oppure da sintomi specifici (ansia, panico, insonnia, depressione, insoddisfazione…) non ci permettono di stare bene, ci creano disagi che si protraggono nel tempo, interferiscono con la nostra vita e non riusciamo a gestirli. In questi momenti è necessario rivolgersi a uno “specialista della mente”, una figura professionale che ci aiuta a comprendere meglio cosa ci sta accadendo e ad avere una maggiore consapevolezza di noi e di ciò che ci circonda.
Sono profondamente convinta che la decisione di cercare aiuto ed affidarsi ad un aiuto professionale è segno di saggezza, buon senso e fiducia nel proprio potenziale. È scegliere di non stare più male.
La terapia è un investimento sulla propria vita e sul proprio futuro. Significa investire tempo ed energia per essere più cosciente delle difficoltà che ci creano sofferenza e per sviluppare nuove forme di accoglienza di se stessi e di risoluzione dei problemi.
Nel precedente articolo “Simbiosi sana e simbiosi patologica” ho affermato che nei rapporti di tutti i giorni le persone entrano ed escono continuamente dalla simbiosi con gli altri e che questo tipo di rapporti, a differenza delle dipendenza sane, comportano sempre una svalutazione.
Che cos’è la svalutazione?
La svalutazione può essere definita come un “ignorare inavvertitamente delle informazioni pertinenti alla soluzione di un problema” (Stewart – Joines, 2000).
Immaginiamo che io sia seduta in un bar per prendere un caffe, c’è molta gente e cerco di attirare l’attenzione del barista per ordinare il mio caffe, ma lui non mi presta attenzione, cerco di fare dei gesti e tento chiamarlo ma non ottengo nessuna risposta. Entra in gioco un comportamento di svalutazione nel momento in cui comincio ad avvilirmi perché nessuno mi presta attenzione, mi sento impotente e mi dico: “Per quanto io provi, non servirà a niente, sembra che nessuno mi veda”. Per arrivare a questa conclusione ho dovuto ignorare delle informazioni sulla realtà nel qui ed ora: il bar è pieno di gente, c’è caos e ho svalutato diverse opzioni per risolvere il mio problema: avrei potuto avvicinarmi al bancone del bar, alzare il tono della voce, agitare il braccio in modo più evidente…
Una svalutazione comporta sempre una sopravvalutazione: rimanendo impotente seduta al tavolino del bar e sentendomi afflitta, ho accreditato al barista un potere su di me che egli nella realtà non ha. Inoltre, una svalutazione non è mai osservabile, dato che non è possibile leggere nel pensiero degli altri.
Esistono dei comportamenti che ci possono aiutare ad individuare una svalutazione?
Ci sono quattro tipi di comportamenti che indicano sempre che stiamo effettuando una svalutazione:
- L’astensione
Es: I membri di un gruppo sono seduti in cerchio, il leader chiede a ciascuno di dire cosa gli è piaciuto dell’incontro del giorno. L’esercizio inizia ed ognuno espone le proprie motivazioni, qualcuno si limita a dire “passo”, poi è il turno di Luca. C’è silenzio ma lui non fa niente e non dice nulla, rimane seduto con lo sguardo fisso nel vuoto.
Esibiamo un comportamento come l’astensione ogni volta che utilizziamo la nostra energia per impedirci di agire, anziché usarla per intraprendere un’azione. Una persona che esibisce questo comportamento si sente a disagio e vive se stessa come una persona che non pensa, sta quindi svalutando la propria capacità di fare qualsiasi cosa riguardo alla situazione.
- L’iperadattamento
Es: Alessia ritorna a casa dopo una giornata di lavoro, vede che ci sono i piatti da lavare e che suo marito è in poltrona a leggere. Alessia dice: “Spero tu abbia avuto una buona giornata, è l’ora del tè vero?”, poi va in cucina, lava i piatti e prepara il tè.
Il comportamento di Alessia è un iperadattamento, si è adeguata a ciò che crede siano i desideri del marito e non si è fermata a pensare se voleva lavare i piatti, se non sarebbe stato più giusto che li lavasse il marito e non si è accorta che il marito non le aveva chiesto nulla. Ha agito senza verificare il desiderio dell’altro e senza nessun riferimento ai suoi bisogni. Una persona iperadattata speso viene vissuta dagli altri come fonte di aiuto, adattabile ed accomodante e a causa di questa accettabilità sociale, l’iperadattamento è il più difficile da individuare tra i quattro comportamenti passivi.
- L’agitazione
Es: Sono ad un corso di musica ma sono seduta nell’ultima fila e non riesco a vedere cosa accade davanti. Più la lezione va avanti, più mi rendo conto che non riesco ad osservare le dimostrazioni pratiche del maestro. Metto giù la penna e inizio a tamburellare con le dita sul tavolo, poi comincio a muovere rapidamente i piedi.
La persona agitata svaluta la propria capacità di agire per risolvere un problema, si sente molto a disagio, usa tutta la sua energia per intraprende attività inutili e ripetitive nel tentativo di alleviare il suo disagio. Molti di noi hanno abitudini comuni che comportano agitazione: mangiarsi le unghie, fumare, torcersi i capelli, mangiare forzatamente…
- L’incapacità o la violenza
Es: Isabella è una donna di 40 anni che vive con la madre, improvvisamente incontra un uomo e se ne innamora, decide quindi di comunicare alla madre che intende trasferirsi da lui. Un paio di giorni dopo la madre comincia ad avere strani sintomi ma il medico non rileva nulla. Isabella si sente in colpa per la decisione presa e valuta l’ipotesi di rimanere a casa con la madre.
Il comportamento della madre è una incapacità, la persona dice a se stessa che in qualche modo è incapace di fare qualcosa, svaluta la propria capacità di risolvere il problema e spera, inconsciamente, che attraverso il suo auto-rendersi incapace riesca in qualche modo a portare l’altro ad aiutarla.
Es: Dopo una furiosa lite col mio ragazzo mi ritrovo ad agire con violenza, tiro un piatto per terra e comincio a dare pugni alla porta, sto attuando comunque un comportamento passivo in quanto non è diretto a risolvere il problema.
La persona mettendo in atto comportamenti di incapacità o di violenza, lascia esplodere l’energia direttamente verso sé o gli altri in un disperato tentativo di costringere gli altri a risolvere il suo problema. Entrambi questi comportamenti di solito vengono a seguito di un periodo di agitazione, in cui la persona accumula energia che potrà scaricare poi in modo distruttivo e passivo.
Nel corso della nostra vita ci troveremo sempre di fronte ai problemi più inattesi, difficili, dolorosi… ora sappiamo che possiamo rispondere con comportamenti attivi e diretti a risolvere il problema, usando tutto il potere del nostro pensiero, delle nostre emozioni e delle nostre azioni, oppure possiamo svalutarci mettendo in atto un comportamento passivo e sperare che qualcuno simbioticamente venga a salvarci.
Nel precedente articolo Il Copione di vita: la storia della nostra vita scritta da noi stessi! ho spiegato che il Copione è un piano di vita inconscio basato su Decisioni prese ad un qualunque stadio dello sviluppo, che inibiscono e limitano la flessibilità nel risolvere problemi e nel relazionarsi agli altri (Erskine, 1980).
Le Decisioni vengono prese in risposta ai Messaggi di Copione che provengono prevalentemente dai nostri genitori (Stewart – Joines, 2000).
Come vengono trasmessi i Messaggi di Copione?
Ancor prima di essere capace di parlare il bambino interpreta i messaggi non verbali dei genitori. Ha una percezione acuta delle espressioni, delle tensioni corporee, dei movimenti, dei toni di voce. Se la mamma lo tiene stretto e al caldo, il bambino sentirà: “Io ti accetto e ti amo”, ma se la mamma lo tiene rigidamente, un po’ discostato da sé, il bambino può sentire: “Io ti rifiuto e non ti voglio vicino”. La mamma può essere del tutto inconsapevole delle proprie tensioni verso il suo bambino.
Quando il bambino comincia a capire il linguaggio, la comunicazione non verbale è ancora importante e la userà per interpretare le parole dei genitori. Ad esempio, il piccolo Marco porta a casa un nuovo libro ed inizia a leggere, il papà con tono aspro dice: “Hai letto male!”, Marco potrebbe interpretare le parole del papà così: “Non voglio averti intorno”.
I Messaggi di copione spesso sono espressi sotto forma di ordini diretti: “Sbrigati!”, “Non essere stupido!”, “Fai quello che ti ho detto!”. La potenza di questi Messaggi dipenderà da quanto sono ripetuti e dai segnali non verbali che li accompagnano.
Spesso al bambino non viene detto solo ciò che deve fare, ma anche quello che è: “Tu sei la mia bambina”, “Non ce la farai mai”, “Sei brava a leggere”. Il contenuto può essere positivo o negativo, diretto o indiretto: “Non è molto forte, sapete”. Spesso il bambino dà per scontato che tali messaggi siano la realtà e su questi si modella e si adatta.
Quali sono i Messaggi di Copione? Sono i comandi e i permessi.
In Analisi Transazionale definiamo Contro-ingiunzioni i comandi su cosa fare e cosa non fare, più alcune definizioni degli altri e della realtà. Tutti noi ne abbiamo ricevuti moltissimi. Eccone alcuni tipici: “Sii buono”, “Lavora sodo”, “Bisogna lavare i panni sporchi in casa”, “Non si dicono le bugie”.
In riferimento alle contro-ingiunzioni prendiamo delle Decisioni per adeguarci agevolmente al contesto sociale e questi comandi ci aiutano a non urlare a tavola, a non buttare a terra il cibo che non vogliamo… tuttavia ci sono dei messaggi che influenzeranno la nostra vita in modo negativo.
Ecco le cinque contro-ingiunzioni principali:
“Sii perfetto” – “Sii forte” – “Sforzati” – “Cerca di piacere” – “Sbrigati”
Se il bambino sente una coazione a seguire questi messaggi, vuol dire che è convinto di poter essere OK fintantoché obbedisce al comando. Può accadere quindi che da adulto lavorerò talmente tanto sodo da farmi venire un ulcera per lo stress, pur di seguire il comando “Sforzati”, oppure non mi esporrò mai in modo diretto e sarò sempre accomodante verso i desideri altrui, sopprimendo i miei bisogni per obbedire al comando “Cerca di piacere” .
Definiamo invece Ingiunzioni i permessi. Le ingiunzioni non sono verbali, vengono avvertite sotto forma di emozioni, di sensazioni corporee e sono rispecchiate nel comportamento. Immaginate una madre con il suo neonato, nell’accudirlo la mamma potrebbe tornare indietro alla sua infanzia e potrebbe provare piacere dallo scambio di carezze, come le piaceva essere accarezzata quando lei stessa era molto piccola. È probabile che il neonato avverta: “Mamma mi vuole e le piace che io sia vicino a lei”. La mamma sta dando al neonato il permesso di esistere e di starle vicino. Tuttavia la mamma potrebbe invece avvertire qualcosa di diverso: “Tutto questo è pericoloso, ora c’è un nuovo bambino che dovrà avere tutta l’attenzione, quando otterrò attenzione io?”. La mamma potrebbe essere spaventata dal nuovo arrivo e potrebbe inconsciamente sentire un rifiuto verso di lui e quindi trasmettere al bambino “Mamma non ti vuole”.
I terapeuti Bob e Mary Goulding (1976) hanno elaborato un elenco di dodici Ingiunzioni base, sulle quali vengono prese le prime Decisioni negative di Copione:
“Non essere” – “Non essere te stesso” – “Non essere un bambino” – “Non crescere” – “Non riuscire” – “Non fare niente” – “Non essere importante” – “Non far parte” – “Non entrare in intimità” – “Non star bene” – “Non pensare” – “Non sentire”
Ad esempio il “Non sentire” può essere modellato da quei genitori che soffrono essi stessi per le loro emozioni e spesso in queste famiglie sono proibite le manifestazioni di emozioni.
Oppure un genitore potrebbe spesso sminuire il pensiero del figlio: Andrea tutto orgoglioso mostra al papà i suoi sforzi per scrivere il proprio nome, il papà storce il naso e dice: “Che genio che sei!”, il padre sta tramettendo l’ingiunzione “Non pensare”.
I Messaggi di Copione non possono costringere un bambino a scrivere il proprio Copione, è sempre il bambino che decide cosa fare dei comandi e dei permessi ricevuti. Può accettarli così come sono, può modificarli, può rifiutarli. I bambini sono attenti osservatori e in particolare osservano la propria mamma e il proprio papà e spesso pensano: “Quale è il modo migliore per ottenere ciò di cui ho bisogno, qui?”. A tal proposito nel precedente articolo definivo il Copione come la migliore strategia che abbiamo trovato da bambini per sopravvivere al mondo.
Se pensate alla vostra vita sicuramente troverete Comandi e Permessi a voi famigliari e che condizionano la vostra vita quotidiana. Essere consapevoli di questi Messaggi è il primo passo per cominciare ad aggiornare il vostro Copione di vita.
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Le Decisioni vengono prese in risposta ai Messaggi di Copione che provengono prevalentemente dai nostri genitori.
Quando un ragazzo adolescente può rivolgersi ad uno psicoterapeuta?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaSpesso accade che i ragazzi, nel periodo dell’adolescenza, abbiano delle "battute di arresto" che si manifestano con improvvisi crolli scolastici, chiusura e ritiro apparentemente immotivati, tristezza e apatia, perdita di interesse per il futuro, scatti d'ira e aggressività, comportamenti eccessivamente euforici e disinibiti, condotte a rischio come abuso di alcolici e uso di sostanze.
Nella maggior parte dei casi questi comportamenti sono segnali della fatica del ragazzo nel superare in modo adeguato i "compiti tipici" di questa fase evolutiva: la definizione di una propria identità, la costruzione di una autonomia crescente, le gestione dei sentimenti ambivalenti verso i genitori, la comprensione e il rispetto per un corpo che sta cambiando, la gestione di pensieri, sentimenti, pulsioni, fino ad ora sconosciuti. E' importante non sottovalutare questi segnali di disagio al fine di permettere all'adolescente di riprendere nel più breve tempo possibile il suo percorso di crescita, evitando rischiosi blocchi evolutivi.
Gli adolescenti che si trovano in questa condizione possono rivolgersi alla psicoterapia per mettere a fuoco l'ostacolo che sta impedendo lo svolgersi del loro percorso di crescita e per scoprire le proprie risorse, indispensabili per il cambiamento.
I colloqui con gli adolescenti sono pensati e strutturati in modo da seguire le specifiche esigenze dei ragazzi che affrontano una delicata fase di passaggio, non più bambini ma non ancora pienamente adulti. L'adolescente è parte attiva del lavoro svolto in seduta e viene sostenuto nello sperimentare nella vita quotidiana ciò che ha appreso di sé.
La durata temporale è tendenzialmente breve, proprio perché cerca di favorire l'autonomia e il fisiologico percorso di emancipazione che un adolescente deve affrontare.
Cosa accade quando un genitore chiede un colloquio psicologico per il proprio figlio?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaDopo aver individuato un disagio nei propri figli adolescenti, spesso i genitori che si rivolgono a uno psicologo per una consulenza hanno difficoltà ad immaginarsi come riuscire a coinvolgerlo all’interno della consultazione: si aspettano un suo rifiuto, temono che lui non ne senta il bisogno, non sanno se e come potranno convincerlo, dato che “ormai è abbastanza grande”.
In situazioni simili è importante che essi condividano con lo specialista innanzitutto le proprie ipotesi, a partire dalle quali pensare insieme cosa e come riferire al figlio.
Un punto di partenza fondamentale è quello di essere sinceri con il ragazzo. In primo luogo perché se un adolescente manifesta dei sintomi o delle difficoltà è importante possa sentire che i propri genitori ne sono consapevoli e che hanno a cuore il fatto di affrontare la questione. Secondariamente perché sentendosi capito e supportato dai propri adulti di riferimento, possa affrontare con maggior fiducia il momento di conoscenza con lo psicologo.
In presenza di un adolescente, diventa molto importante la costruzione di un’alleanza basata su una questione fondamentale: le informazioni che porterà in colloquio non verranno integralmente riferite ai genitori, ma verrà concordato insieme cosa comunicare e cosa no. Questo perché si tratta comunque di un soggetto in fase evolutiva dal punto di vista psicologico e minorenne di fronte alla legge, quindi in ogni caso da proteggere.
Il tutto si pone nell'ottica fondamentale di poter favorire la massima collaborazione attiva da parte del ragazzo, che possa sentirsi quanto più possibile libero di manifestare i propri pensieri, emozioni, affetti.
La psicoterapia è un intervento che mira ad aiutare una persona che si trova in un momento di crisi o di sofferenza e non riesce a capire quale sia la causa di questo stato o come trovare sollievo per ristabilire equilibrio nella propria vita.
La psicoterapia è, dunque, uno spazio di ascolto e di sostegno nel quale il terapeuta lavora con il cliente per individuare la problematica centrale che crea malessere, promuovendo strategie per accrescere il benessere e migliorare la qualità della vita. Il trattamento psicoterapeutico è finalizzato al conseguimento della migliore realizzazione di se stessi, delle proprie capacità e potenzialità; all’aumento della conoscenza di sé e l'accettazione dei propri limiti; alla riduzione della sofferenza psicopatologica.
La psicoterapia è un percorso che può essere intrapreso anche da persone che non soffrono di un disagio in particolare, ma che hanno il desiderio di imparare a conoscersi e rendersi più consapevoli di alcuni aspetti di sé.
Perché andare da uno psicoterapeuta se ho gli amici che mi vogliono bene?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaSpesso si confonde il supporto e il sostegno che offre un amico che ci vuole bene, che ci conosce e ci propone dei suggerimenti, dal ruolo svolto da uno psicoterapeuta in un percorso professionale di terapia. La comprensione, la vicinanza e il supporto che si ricevono da un amico, sono molto diverse da quelle che si ricevono da un terapeuta.
La relazione terapeutica è una relazione reale tra due persone che interagiscono nel qui ed ora, in uno spazio condiviso all’interno di un contesto definito da regole. Dunque, è un rapporto tra due individui che si impegnano a lavorare per un obiettivo comune, ciascuno con il proprio ruolo e competenza specifica e partecipano in modo attivo e responsabile al processo terapeutico, all’interno di una relazione paritaria.
Il compito principale del terapeuta è quello di facilitare il processo di autoconsapevolezza del paziente, per permettergli di riprendersi il proprio potere personale e di esercitarlo proprio in quelle situazioni in cui sperimenta disagio o malessere. Il terapeuta evita di sostituirsi al paziente e non offre indicazioni e suggerimenti sul modo di risolvere i problemi.
È fondamentale che nella relazione terapeutica ci sia un sincero clima di accettazione e comprensione, dunque, il terapeuta deve saper cogliere i significati profondi del paziente, rispettandone la soggettiva individualità, al fine di evitare di incorniciare il paziente stesso e il problema presentato all’interno di una propria struttura di valori e convinzioni.
Lo strumento fondamentale per ogni tipo di relazione è la comunicazione. Ma come comunichiamo ai nostri cari? Come mai a volte ci arrabbiamo o siamo a disagio parlando di cose futili?
Vediamo un esempio
Il marito con voce dura e le sopracciglia inarcate: “Dove sta la mia camicia?”
La moglie con voce lamentosa, stringe le spalle, alza le sopracciglia e dice: “L’ho messa nel tuo cassetto!”
Nelle transazioni possiamo individuare sempre due livelli di comunicazione: uno sociale (ciò che le persone dicono) ed uno psicologico (ciò che le parole sottendono, i “messaggi nascosti”).
In questo esempio il livello psicologico potrebbe essere espresso in questo modo:
Marito: “Tieni sempre le mie cose in disordine?”
Moglie: “Tu mi critichi sempre ingiustamente!”
Quasi sempre la nostra reazione emotiva e comportamentale risponde al livello psicologico della transazione. Lo psicologo canadeseEric Berne (1971) afferma che ciò che avviene in seguito ad uno scambio tra due persone è sempre determinato dai “messaggi nascosti” nella comunicazione.
Ma come possiamo capire questi messaggi nascosti?
Berne parlava di un piccolo omino che venuto da Marte scende sulla terra ad osservare le cose terrene. Questo omino non ha alcun preconcetto su cosa intendono significare le nostre comunicazioni ed osserva semplicemente come comunichiamo, poi nota i comportamenti che ne seguono.
Se ci capita di sentirci a disagio o arrabbiati o delusi mentre parliamo con una persona, possiamo provare ad essere questo piccolo marziano, in modo da capire cosa la persona ci sta comunicando e cosa noi stiamo comunicando all’altro.
Per “pensare marziano” è fondamentale osservare i segnali non verbali che ritroviamo nel tono di voce, nei gesti, nell’atteggiamento corporeo, nella respirazione, ecc.
I bambini piccoli leggono intuitivamente questi segnali, tuttavia, crescendo veniamo educati a cancellare questa nostra intuizione (“Non è educato
guardare fisso la gente mentre parla”). In un certo senso dovremmo ri-esercitarci a notare questi segnali che a volte sono addirittura contrari ai nostri messaggi verbali.
Al fine di mantenere una comunicazione fluida è importante mantenere le transazioni parallele. Ma che sono le transazioni parallele?
Peter con voce pacata e gentile chiede: “Ti andrebbe di passare a prendermi alle 20?”Andy con volto sereno risponde: “Va bene, a piùtardi”
Nelle transazioni parallele i protagonisti rispondono al livello sociale della transazione e i segnali corporei confermano i messaggi verbali della comunicazione.
Invece nelle transazioni complementari le persone rivestono due ruoli, complementari appunto, tipo “genitore-bambino”, “persecutore-vittima”.
Ad esempio il Capo rimprovera e critica Mary, la quale si scusa mortificata. Questo tipo di transazioni sono prevedibili e possono continuare senza fine.
Capo: “Questa lettera la dovevi scrivere su un foglio di carta più piccolo, ti avevo detto di farti un promemoria”
Mary con tono sottomesso: “Ho sbagliato, mi dispiace, in questi giorni ho avuto tanto da fare”
Infine nelle transazioni incrociate si assiste ad una interruzione della comunicazione ed una o entrambe le persone dovranno cambiare il proprio “stato” affinché la comunicazione possa proseguire.
Peter con voce pacata chiede: “Che ore sono?”
Andy si alza, aggrotta le ciglia e dice: “Sei sempre in ritardo!”
In questo tipo di transazione Peter pone una domanda da uno stato che potremmo definire “Adulto” ed Andy risponde da uno stato “Genitore Critico”. I due protagonisti, dunque, non condividono lo stesso “stato” ed è molto probabile che la comunicazione converga in argomenti diversi dallo stimolo di partenza.
Ma quindi esistono transazioni “buone” e “cattive”? In realtà no.
Utilizzare una transazione incrociata, ed esempio, potrebbe essere molto utile nel caso in cui il vicino di casa abbia deciso di raccontarci la sua vita sulla porta dell’ascensore, oppure se Mary decidesse di interrompere la catena comunicativa con il suo Capo, potrebbe incrociare la transazione dicendo:
Mary: “Mi dica per favore su che tipo di carta vuole queste lettere in futuro”.
Ed infine potrebbe essere piacevole utilizzare una transazione complementare con il proprio compagno:
John buttandosi sulla poltrona: “Sono proprio stanco! Me lo faresti un massaggio?”
June con tono carezzevole: “Certo, arrivo subito”.
Secondo Stephen Karpman (1971) possiamo sempre scegliere nuovi modi di comunicare così da interrompere il nostro modo abituale di reagire agli altri. Ogniqualvolta ci sentiamo bloccati mentre comunichiamo, possiamo provare a riflettere su quanto accaduto “come omini venuti da Marte” e scegliere di volta in volta che tipo di transazione utilizzare.
È davvero giustificata l’enfasi con cui si sottolinea l’effettivo aumento della depressione negli indici epidemiologici?
Il termine depressione ha molti significati.
La depressione, intesa come umore o stato emotivo, fa parte della normale esperienza umana. La distinzione tra umore depresso e depressione clinica, però, non è sempre chiara. Solo una ristretta minoranza di persone presenta sintomi depressivi tali da corrispondere ad un disturbo clinico, molto più numerose sono le persone che fanno esperienza di uno stato d’umore depressivo.
Circa il 40% della popolazione riferisce di aver provato nel corso della propria vita sentimenti di depressone, delusione e infelicità.
Ciascuno di noi aspira a vivere la propria vita con gioia e gratificazione, realizzando non solo il benessere fisico ma soprattutto quello interiore. Tuttavia, la nostra esistenza è segnata da momenti di dolore e questo è inevitabile.
La vita comporta delusioni, fatiche, perdite.
A molti di noi è capitato di perdere una persona cara, di concludere una storia d’amore, di perdere il proprio lavoro o uno status sociale: sono tutti eventi che segnano una crisi nel nostro equilibrio interiore e mettono in discussione i nostri valori.
C’è bisogno di tempo per assimilare le perdite e i grandi cambiamenti: i movimenti psichici richiedono gradualità e una certa lentezza.
Quando parliamo di depressione clinica ci riferiamo a sentimenti di mortificazione, inadeguatezza, fallimento, disperazione, colpa che perdurano nel tempo e che nel tempo possono offuscare il piacere della vita.
Chi soffre di depressione presenta un abbassamento nel tono dell’umore e una riduzione delle spinte vitali. Vengono meno la fiducia nelle proprie risorse e la speranza nel futuro. Attività quotidiane che un tempo erano naturali e fonte di piacere, come accudire i figli, investire nei rapporti sociali, lavorare, fare sport, possono diventare talvolta impossibili.
Il mondo sbiadisce e insieme la voglia di parteciparvi. Tutto sembra rallentare: il proprio corpo, lo scorrere dei pensieri e delle parole, il tempo vissuto.
Tutto questo genera inquietudini e vissuti di ansietà che non danno pace.
Altre volte, la sofferenza può mascherarsi in un corpo “sofferente”, compaiono quindi dolori diffusi, mancanza di appetito, disturbi del sonno, cefalee o preoccupazioni consistenti rispetto alla salute fisica.
La depressione clinica è quindi caratterizzata da una significativa accentuazione nell’intensità, pervasività e durata di emozioni e sentimenti altrimenti normali nella vita di ognuno di ciascuno di noi (“mi sento giù“, “oggi ho un umore nero“, “mi sento afflitto edeluso“).
Credo di essere depresso, cosa devo fare?
Tanti sono i fattori che possono dare origine a questa forma di sofferenza. È importante innanzitutto riconoscere la depressione come una patologia.
I farmaci per quanto efficaci su molti sintomi depressivi, non sono risolutivi, in quanto non agiscono sui fattori profondi che portano una persona a ripiegare nella depressione.
Questi aspetti inconsci sono meglio affrontabili con un percorso di psicoterapia. Quest’ultima in particolare può offrire uno spazio di accoglienza e riconoscimento dei propri vissuti, che sostiene la persona in un percorso di conoscenza di sé volto a mettere in parola quel dolore tanto ingombrante e per riaccendere quella scintilla di vita che sembra momentaneamente perduta.
Esiste un'ansia "normale" e un'ansia "patologica"
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaNella società odierna l’ansia fa ampiamente parte della vita quotidiana di ognuno di noi.
Viviamo in un mondo in cui i cambiamenti si susseguono rapidi, ogni giorno si scoprono nuovi rischi, pericoli, malattie, ogni giorno si sente parlare di “crisi”: nell'economia, nei valori di riferimento, crisi che investe la famiglia e le nuove generazioni, crisi nella rappresentazione del futuro. Insomma, molto più che in passato, il clima sociale sembra alimentare una certa quota di ansietà.
Tuttavia, ciò non basta per spiegare come mai ci può capitare di vivere periodi della nostra vita in uno stato di forte ansia.
Le nostre emozioni, infatti, rispondono sempre a logiche soggettive e spesso hanno radici profonde nella psiche e nella storia di ognuno di noi. Ansia ed inquietudine, in particolar modo, sono emozioni che possono aumentare sotto il peso dei conflitti e degli eventi dolorosi della propria vita.
Chi soffre d’ansia può avere difficoltà ad addormentarsi, si sveglia nel corso della notte e al mattino si alza con una sensazione di spossatezza.
Così, una forte ansia può diventare estenuante, tanto da generare sintomi tipici dello sfinimento, quali: tensione, infelicità, inattività, cefalea, dolori agli arti o alla schiena, tensione muscolare, tachicardia.
Il disturbo più costante e spiacevole spesso concerne proprio il sonno. Tutti questi sintomi possono naturalmente essere mutevoli e possono alternarsi a momenti di maggior benessere e ottimismo.
È importante, allora, saper distinguere tra l’ansia “normale” e l’ansia “patologica”.
Ansia "normale"
L’ansia “normale” è transitoria e proporzionata agli eventi, non incide sulla salute fisica e mentale, permette anzi un miglior adattamento, in quanto informa l’individuo sui pericoli a cui potrebbe andare incontro e lo indirizza nella ricerca di soluzioni adeguate al contesto. L’ansia “normale” è costruttiva: è una fonte di curiosità, intelligenza, apertura al mondo, provoca uno stato di tensione psicologica che aiuta la persona ad attivare risorse e capacità operative finalizzate alla risoluzione di un problema.
Nei casi in cui l’individuo non riesce a trovare soluzioni adattive per fronteggiare situazioni sconosciute o potenzialmente pericolose, l’ansia può perdere le sue caratteristiche funzionali ed assumere un carattere patologico, determinando vissuti di impotenza e di passività nel controllo delle proprie emozioni.
Dunque, un criterio differenziale tra la “normale” reazione ansiosa e l’ansia “patologica” è rappresentato dal fatto che la prima amplifica le capacità operative del soggetto, mentre la seconda le disturba inibendole e influendo negativamente sulle prestazioni.
Ansia "patologica"
L’ansia “patologica” costituisce spesso un freno: paralizza, blocca, fa sentire impotenti.
È intensa, sproporzionata agli eventi, ha una durata ed un’intensità eccessive, è difficile da controllare e anche se talvolta se ne colgono le origini, questo disagio influenza in maniera consistente la propria vita. Spesso interferisce con lo svolgimento dell’attività lavorativa, in quanto insorgono continue preoccupazioni e dubbi assillanti (Ho pensato proprio a tutto? Sarò all’altezza del compito?…), oppure può influenzare il rapporto con gli altri e diventare motivo di apprensione, fin quando sarà sempre più difficile godere della compagnia delle persone.
L’ansia patologica, assume inoltre caratteristiche auto-invalidanti, per cui l’individuo perpetua comportamenti disadattivi per lunghi periodi di tempo, spesso giudicati dalla persona stessa come irrazionali e inadeguati. In tal caso, l’ansia diviene sia la causa, sia la conseguenza del nostro malessere.
Cosa fare quando l'animo si agita troppo?
Spesso chi soffre a causa di un disagio ansioso si rivolge in prima istanza al medico di base, nella speranza di essere aiutato a “liberarsi” da questa zavorra che limita pesantemente la propria vita. I farmaci in realtà possono offrire un sollievo, ma raramente sono da soli risolutivi.
Essi possono attenuare le componenti fisiologiche dell’ansia, tuttavia, in assenza di una rielaborazione, le cause più profonde dell’ansia e le modalità di risposta con cui affrontiamo gli stimoli per noi ansiogeni, rimangono immodificati.
È importante ricordare che un’ansia intensa può essere il segnale di una problematica più profonda che necessita di essere compresa. L’ansia è un “segnale d’allarme” che invita a fermarsi.
Per questo motivo, chi soffre d’ansia può trarre beneficio da un percorso di psicoterapia eventualmente affiancato da un intervento farmacologico. Quest’ultimo può favorire una comprensione più profonda del proprio disagio, stabilendo dei nessi tra il vissuto ansioso e le condizioni interne che lo generano e favorendo l’individuazione di meccanismi di risposta più adattivi e funzionali e che possono riportarci ad uno stato di benessere.
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Il copione di vita: la storia della nostra vita scritta da noi stessi!
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaOgnuno di noi ha scritto la storia della propria vita. Cominciamo a scriverla dalla nascita, quando abbiamo 4 anni abbiamo già deciso le parti essenziali e fino ai 12 anni diamo qualche ritocco e aggiungiamo gli ultimi dettagli. Infine durante la nostra adolescenza aggiorniamo il copione con personaggi più significativi e più vicini alla nostra realtà. Questa storia è il nostro copione di vita.
Cos’è il copione di vita?
Il copione è un piano di vita inconscio basato su decisioni prese ad un qualunque stadio dello sviluppo, che inibiscono la spontaneità e limitano la flessibilità nel risolvere problemi e nel relazionarsi agli altri (Erskine, 1980). Tali decisioni vengono solitamente prese quando la persona è sotto stress e la consapevolezza delle possibili scelte alternative è limitata. Le decisioni di copione emergono nella vita di tutti i giorni sotto forma di convinzioni vincolanti circa l’immagine di sé, degli altri e la qualità della vita.
Esempi di decisioni di copione:
- Devo fare ciò che vogliono gli altri per non rimanere da solo.
- A nessuno importa di me. Non dirò più niente e non mi fiderò degli altri.
- Me la sbrigherò da sola, mi impegnerò molto.
- Gli altri sono al primo posto e vanno compiaciuti.
- C’è qualcosa che non va in me. Farò in modo di non espormi così gli altri non mi rifiuteranno.
Il copione è anche un sano e necessario schema di orientamento alla realtà (English, 1988) e un processo di autodefinizione psicologica. Secondo Cornell (1988) il copione “è il processo continuativo di costruzione psicologica della realtà, autodefinente e a volte autolimitante”. La formazione del copione è il processo per cui cerchiamo di dare un senso al nostro ambiente sociale e famigliare e con cui diamo un significato alla nostra vita, ci aiuta inoltre a predire i problemi della nostra vita nella speranza di realizzare i nostri sogni e desideri.
Quali sono le caratteristiche del copione di vita?
Il copione è molto influenzato dai nostri genitori, fin dai primi giorni di vita i genitori ci inviano dei messaggi sulla base dei quali arriveremo a delle conclusioni su noi stessi, sugli altri e sul mondo. Questi messaggi di copione sono sia verbali che non verbali, sia consci che inconsci e costituiscono la struttura di riferimento in risposta alla quale vengono prese le principali decisioni di copione del bambino. (Nel prossimo articolo esaminerò i vari tipi di messaggi di copione e il modo in cui essi sono collegati alla decisione di copione).
Il copione è decisionale, non è determinato unicamente da “forze esterne” (genitori ed ambiente sociale) deriva anche dalle emozioni e dal modo personale che abbiamo di leggere e di rispondere alla realtà nel momento in cui prendiamo la nostra decisione.
Il copione è la migliore strategia che abbiamo trovato da bambini per sopravvivere al mondo. Le decisioni di copione sono quindi prese sulla base delle emozioni e dell’esame di realtà di un bambino che ragiona “dal particolare al generale”. Supponiamo ad esempio che la madre di Tommaso sia incostante nel rispondere alle sue esigenze, certe volte accorre quando lui piange, altre volte lo ignora. Tommaso non ne tra la conclusione di un adulto, ossia “della mamma non ci si può fidare quando è stanca”, ma può dedurre e decidere che “non ci si può fidare degli altri”, oppure “non ci si può fidare delle donne”. Inoltre se Tommaso si sente rifiutato dalla mamma, potrebbe attribuire la colpa a se stesso, decidendosi “c’è qualcosa che non va in me”. I bambini non sanno distinguere tra bisogni e fatti reali, sono piccoli, fisicamente vulnerabili in un mondo popolato da giganti. Da bambini ci troviamo in una posizione di inferiorità e percepiamo i genitori come dotati di un potere totale.
Il copione è fuori dalla nostra consapevolezza, è necessario lavorare in terapia per scoprire il proprio copione.
Come mettiamo in scena il nostro copione nella vita adulta?
Da adulti talvolta riproponiamo le strategie che decidemmo di attuare da bambini. In queste occasioni reagiamo alla realtà come se fosse il mondo che immaginammo nelle nostre prime decisioni, ad esempio “compiacere per essere accettati”, “non esprimersi per non essere sgridati”. Ma perché facciamo così? La ragione primaria è che speriamo ancora di risolvere il tema fondamentale rimasto irrisolto nella nostra infanzia: ottenere amore, attenzioni incondizionate… spesso questo è la fonte della maggior parte dei problemi delle persone.
Abbiamo più probabilità di entrare nel copione quando siamo sotto stress oppure quando la situazione attuale somiglia alla situazione di stress dell’infanzia. Nel linguaggio terapeutico dell’Analisi Transazionale si dice che la situazione attuale funziona come un “elastico” che ci riporta indietro nel tempo ed è come se “mettessimo una maschera su qualcuno”. Ad esempio durante una discussione con il mio capo, sovrappongo il volto di mio padre a quello del mio capo e mi sento smarrita e senza risorse come quando papà mi sgridava.
Come uscire dal copione?
Uscire dal copione significa sentirsi liberi di entrare in contatto con gli altri in modo significativo e saper trovare risposte alle situazioni che viviamo, senza idee o piani preconcetti che condizionano la nostra interpretazione della situazione e ne riducano quindi le nostre scelte comportamentali.
Esempio: Oggi Maria non mi rivolge la parola. Potrei interpretare questa situazione usando una convinzione di copione e pensare che Maria non mi considera perché non sono abbastanza importante per gli altri, oppure potrei usare le mie competenze da adulta e chiedere a Maria come sta oggi e darmi modo di verificare il suo stato d’animo.
Talvolta per riuscire in questo intento è necessario intraprendere un percorso terapeutico che ci aiuti a scoprire le nostre decisioni di copione e che ci aiuti a “tagliare gli elastici” che ci riportano al passato.
Il copione può essere modificato nella vita adulta?
Si, è possibile modificare il nostro copione prendendo nuove decisioni da una posizione adulta, ossia da una nuova prospettiva su di me, gli altri e il mondo che sia legata al qui ed ora. Delineare questo concetto è fondamentale, altrimenti il copione rischia di diventare un “destino fatale”, una profezia che si auto-conferma, invece l’uomo è anche un solutore di problemi, non è solo spinto da bisogni di dipendenza infantile (Allen, 1988).
Le influenze degli eventi della prima infanzia, come vengono compresi e fraintesi dal bambino che cresce, esercitano un potente impatto sia sullo sviluppo sano, sia sulla patologia specifica. Essi influenzano la formazione del carattere, degli atteggiamenti, dei sentimenti, delle relazioni, delle nostre concezioni sul futuro. Tuttavia, la capacita di resistenza dei bambini e dell’uomo in generale, non deve essere sottovalutata. Se cosi facessimo, vorrebbe dire che i bambini possono essere condizionati in modo diretto e prevedibile, invece molti individui superano con successo delle esperienze infantili difficili e perfino tragiche.
Nel prossimo articolo: Come si prende una decisione di copione?
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Sarebbe bello poter scrivere il copione della nostra vita… e la scoperta è che già lo facciamo!
“La simbiosi è una stretta inter-dipendenza fra due o più persone che si complementano per mantenere sotto controllo, immobolizzati e in qualche misura appagati, i bisogni della parti più immature della personalità” (Bleger, 2010).
Facciamo un esempio, immaginate un professore che sta tenendo una lezione e decide di fare una dimostrazione alla lavagna, chiama una studentessa e le chiede: “Sara vorresti dirci come faresti il passo successivo?”. Sara non dice nulla, rimane immobile. Il silenzio prosegue e gli altri studenti cominciano ad agitarsi e a ridere. Sara comincia a muovere rapidamente il piede e il professore dopo poco dice: “Sembra che tu non sappia la risposta, dovresti esercitarti di più”, poi completa l’esercizio. Sara si rilassa e comincia diligentemente a prendere appunti.
Studentessa e professore sono entrati in simbiosi:
- Sara ha svalutato la sua capacità di ragionare per trovare una soluzione e con il suo comportamento di silenzio ha portato il professore ad assumersi l’onere di gestire la situazione
- il professore completando l’esercizio alla lavagna è entrato nel ruolo complementare, ha quindi detto a Sara cosa avrebbe dovuto fare e ha svalutato la possibilità di trovare un modo creativo per aiutarla a risolvere l’esercizio.
Il “problema” della simbiosi è che, una volta che si è creata, i partecipanti si sentono a proprio agio: Sara finalmente si rilassa e il professore evita la frustrazione di esprimere la sua insoddisfazione per lo scambio avvenuto. Ma questo “agio” ha un prezzo: chi è nella simbiosi esclude rispettivamente intere zone delle proprie risorse di persona adulta.
Nei rapporti di tutti i giorni le persone entrano ed escono continuamente dalla simbiosi con gli altri. Talvolta relazioni d’amore stabili si fondano sulla simbiosi stessa. Possiamo fare l’esempio di Bill che è un uomo forte, silenzioso, con la pipa all’angolo della bocca, si esprime a grugniti e non condivide le sue emozioni, poi c’è Betty una donna che ha come missione quella di piacere al marito ed è felice di seguire le sue direttive e di appoggiarsi a lui, spesso le capita di farsi prendere dal panico e di aspettare che Bill torni a casa per risolvere tutto. Gli amici si chiedono come questa coppia possa essere felice, nella realtà all’interno di questo rapporto ciascuno ha bisogno dell’altro: Bill ha bisogno di prendersi cura di qualcuno e Betty ha bisogno di essere accudita. Ciascuno svaluta parte delle proprie capacità: Betty svaluta la sua capacità di risolvere i problemi e Bill la sua capacità di esprimere le sue emozioni. Probabilmente entrambi pensano: “Senza di te non riuscirò a stare in piedi”.
Esistono simbiosi sane?
Assolutamente si. Immaginate che io sia appena uscita da una operazione, mi stanno trasportando su una barella, non so bene dove sono e una infermiera mi tiene la mano e mi dice: “Tra poco starai bene, ora pensa solo a tenere la mia mano”. In quel momento non sono nella posizione di valutare in modo adulto ciò che mi sta capitando e ritorno bambina, lasciando che qualcuno mi accudisca e mi rassicuri. Io e l’infermiera siano in una simbiosi sana, che si differenzia da una simbiosi patologica perché non comporta nessun tipo di svalutazione.
Un altro esempio di simbiosi sana è la dipendenza normale, ossia la simbiosi genitore-bambino. Il bambino non può accedere ancora a delle parti adulte in quanto ancora non si sono sviluppate, quindi anche in questo caso non c’è nessun tipo di svalutazione. Il genitore dovrà aiutare il bambino a sviluppare sempre maggiori risorse personali così da avere sempre meno bisogno di affidarsi a lui. In questo processo ideale, la simbiosi iniziale viene progressivamente svanendo.
Genitore o bambino? Come si sceglie la posizione nella simbiosi?
Per quanto le mamme e i papà possono essere dei bravi genitori, ogni bambino attraversa il processo di sviluppo senza che tutti i bisogni vengano esauditi. E la simbiosi è un tentativo di vedere esauditi dei bisogni legati allo sviluppo che non sono stati soddisfatti durante l’infanzia.
Ogni qual volta entriamo in simbiosi ricreiamo il rapporto esistente nel passato tra noi e un genitore e riproponiamo quella situazione nel tentativo di manipolare l’altro a soddisfare il bisogno che non fu esaudito. Da adulti ricerchiamo quindi i nostri bisogni nella vita di tutti i giorni, ma lo facciamo utilizzando le migliori strategie che abbiamo elaborato da bambini, strategie che oggi non sono adeguate al nostro essere adulti, ossia nella simbiosi svalutiamo le nostre risorse di persona adulta e questo è un processo che è fuori dalla nostra consapevolezza.
Ma allora perché dovremmo scegliere il ruolo del Genitore?
Ci sono delle situazioni in cui il bambino prende una prima decisione inconscia: “I miei genitori sono talmente non all’altezza, che la mia posizione migliore è assumere io stesso il ruolo di genitore”. Può darsi che la mamma di questo bambino temesse di porre fermi limiti al proprio figlio e lo riprendesse dicendo: “Se fai così mi fai soffrire e papà si arrabbierà”. In tal modo si chiede al bambino di assumersi la responsabilità delle emozioni e del benessere dei genitori, ciò può spiegare perché il bambino risponda decidendo che il suo compito nella vita sarà quello di badare ai genitori diventando un piccolo genitore.
Nel corso della nostra vita ci troveremo sempre di fronte a quesiti del tipo: “Come faccio ad affrontare ciò che mi è accaduto?”, possiamo rispondere usando tutto il potere del nostro pensiero, delle nostre emozioni e delle nostre azioni, oppure possiamo svalutarci e sperare che qualcuno simbioticamente venga a salvarci.
Nel prossimo articolo spiegherò come ci svalutiamo e quali sono i comportamenti che ci possono aiutare ad individuare quando ci stiamo svalutando.
Prendere e dare carezze è davvero così facile?
Scritto da Dott.ssa Noemi Di Lillo Psicoterapeuta RomaMentre passeggiamo per strada incontriamo un nostro vicino, lo guardiamo e sorridendo diciamo: “Buongiorno!”, il nostro vicino contraccambia il saluto e risponde: “Buongiorno!”.
In questa situazione ci siamo appena scambiati una carezza. Una carezza è definita un'unità di riconoscimento (Stewart – Joines, 1987).
Questi tipi di scambi sono talmente famigliari per noi che non ci facciamo più caso, ma ora immaginiamo la stessa situazione con una variazione, ossia il nostro vicino non contraccambia il nostro saluto, ci passa avanti come se non ci fossimo: che cosa provereste?
Probabilmente vi chiedereste: “Che cosa è successo?”.
In generale è possibile affermare che abbiamo bisogno di carezze e ci sentiamo deprivati se non le otteniamo.
Esistono diversi tipi di carezze? Si, vediamo quali
- Verbali o Non verbali: ogni tipo di comunicazione è una carezza e la maggior parte dei nostri scambi comporta anche carezze non verbali
- Positive o Negative: una carezza per essere considerata positiva deve essere piacevole per chi la riceve, al contrario una carezza negativa è sentita come spiacevole. Ad ogni modo, qualsiasi tipo di carezza è meglio di nessuna carezza
- Condizionate o Incondizionate: una carezza condizionata si riferisce a ciò che una persona fa: “che bel lavoro che hai fatto!”, invece una carezza incondizionata si riferisce a ciò che una persona è: “sono felice che sei qui!”.
Come diamo le nostre carezze?
Alcune persone hanno l’abitudine di dare carezze che cominciano col sembrare positive ma poi danno una “frecciata” negativa finale: “vedo che cominci a capire, più o meno”, queste carezze comunicano qualcosa di positivo ma poi è come se lo annullassero.
Altre persone sono molto generose nel dare carezze positive ma lo fanno in modo non sincero: “che bello il tuo articolo! Quando l’ho letto ho pensato che era molto interessante, molto acuto…”.
Ci sono anche persone che hanno difficoltà a dare carezze positive e non ne danno affatto. Spesso ai genitori capita di dare carezze in modo condizionato: “ti voglio bene se fai il bambino bravo”.
La modalità con cui diamo carezze è strettamente legato al nostro background culturale e famigliare, se ci soffermiamo a pensare alla nostra storia da bambini possiamo trovare dei collegamenti con il nostro modo di dare carezze da adulti.
Ma tutti riusciamo a prendere le carezze che vi vengono date?
Noi tutti abbiamo delle preferenze, alcuni preferiscono ricevere carezze per quello che fanno piuttosto che per quello che sono, alcuni preferiscono essere accarezzati fisicamente, altri solo verbalmente.
La maggior parte di noi preferisce ricevere le carezze che è stato abituato a ricevere. A causa di questa famigliarità possiamo svalutare altri tipi di carezze, oppure può darsi che inconsciamente vorremmo ricevere le carezze che raramente otteniamo ma non siamo capaci di chiederle o di accettarle. Supponiamo che io da bambina abbia sempre desiderato ricevere un abbraccio da mamma e che lei raramente lo abbia fatto, per alleviare la sofferenza di non riceverle, può darsi che io decida di negare il mio bisogno di ricevere degli abbracci affettuosi e può accadere che da adulta io mantenga questa strategia senza esserne affatto consapevole.
Esiste quindi un filtro per le carezze?
Si esiste.
Quando una persona ottiene una carezza non in sintonia con la sua “modalità preferenziale” è probabile che la ignori o la sminuisca. Sentendo una carezza “non in sintonia” potreste dire: “Grazie”, ma nel dirlo potete arricciare il naso e storcere la bocca, oppure potreste mettervi a ridere e dire: “Si va be!”.
Ma perché rifiutiamo alcune carezze? Ci avvaliamo del nostro filtro delle carezze per poter mantenere l’idea che abbiamo di noi stessi e degli altri. Le persone che hanno avuto un’infanzia molto dolorosa possono decidere che non è sicuro accettare nessun tipo di carezza e hanno un filtro così stretto che sfuggono a qualsiasi carezza viene loro offerta. Così facendo mantengono la loro sicurezza interiore ma si privano della possibilità di esperire da adulti le carezze in un modo nuovo e magari gratificante.
Per riprenderci la nostra consapevolezza, spontaneità e intimità secondo Steiner (1987) possiamo cominciare pensando che:
- possiamo chiedere le carezze: le carezze che otteniamo chiedendo hanno altrettanto valore di quelle che riceviamo senza chiederle!
- possiamo provare piacere a dare carezze a noi stessi
- possiamo rifiutare apertamente le carezze che non ci fanno piacere
- le carezze sono disponibili in quantità illimitata: possiamo dare e ricevere una carezza ogni volta che lo desideriamo!
La consulenza psicologica è un intervento breve con obiettivi specifici, rivolto alla promozione del benessere piuttosto che al disagio o ad un disturbo. Rappresenta, quindi, un supporto limitato nel tempo che pone al centro dell’attenzione l’analisi di una situazione problematica attuale, che può essere di natura affettiva, sociale, lavorativo, famigliare…
La consulenza psicologica non è una forma di psicoterapia, da essa infatti differisce per obiettivi, modalità di attuazione, tempi e metodi. L’obiettivo principale della consulenza psicologica è accrescere il benessere e migliorare la qualità della vita della persona, attraverso lo sviluppo dell' autoconsapevolezza, l’accettazione delle emozioni, la crescita e l’incremento delle risorse personali. Il ruolo dello psicologo è quello di facilitare il lavoro della persona in modo da rispettarne i valori, le risorse personali e la capacità di autodeterminazione, al fine di “aiutarla ad aiutarsi”.
In occasione del Mese del Benessere Psicologico parteciperò attivamente anche io con consulenze gratuite che si possono prenotare sul sito.